[11] Città del Messico - costruita sulle macerie della capitale dell’impero azteco, Tenochtitlán - è cresciuta rapidamente fino a diventare una gigantesca metropoli cosmopolita con circa 20 milioni di abitanti: una città mostruosa e inafferrabile, affascinante e vitale, assordante ed eclettica. La sua storia è la storia del Messico, sempre in bilico tra grandiosità e modestia, tra ricchezza e miseria, tra pace e guerra. La furia distruttiva dei Conquistadores ha cancellato per sempre l’immagine dell’antica città che doveva apparire come un sogno fatto di pietra in mezzo alle acque della laguna di Texcoco. Città del Messico è poi rinata, altrettanto sontuosa, influenzata dal gusto europeo, ma capace di far riemergere l’identità india che si compone di un mosaico di popoli dalla memoria e dal carattere fortissimi. [111] I Mexica, o Aztechi, furono l’ultimo popolo di lingua náhuatl che dalle regioni settentrionali emigrarono verso gli Altipiani centrali. Guidati dal Dio della Guerra e del Sole, Huitzilopochtli, erano partiti dalla loro mitica patria Aztlán - ”luogo bianco” - nel 1116 d.C. per giungere nel 1280 nella Valle del Messico, occupata in gran parte da nomadi Chichimechi diventati sedentari e dai Tepanechi che vivevano sulle rive del Lago Texcoco, tra Tenayuca e Cuicuilco. In cambio di tributi lacustri i Tepanechi permisero ai Mexica di stabilirsi su un isolotto del lago. Qui il Dio Huitzilopochtli si manifestò ai Mexica con una visione: avrebbero dovuto costruire la loro nuova patria là dove un’aquila con un serpente tra gli artigli si fosse posata su un cactus. E così fu: sullo spazio ristretto dell’isolotto gli Aztechi fondarono Tenochtitlán - “luogo del fiore di cactus” - che diventerà la capitale di un grande impero, il più potente di tutta la Mesoamerica. [1111] Alla ricerca di una legittimazione del loro potere, gli Aztechi guardarono alla civiltà dei Toltechi, poichè uno dei loro primi sovrani, Acamapichtli (vissuto alla fine del XIII secolo), faceva risalire la propria ascendenza a Quetzalcóatl, il mitico re-sacerdote della capitale tolteca Tula. Gli annosi e aspri conflitti con le tribù vicine vennero sedati nel 1428, quando gli Aztechi crearono il patto della “Triplice Alleanza” tra Tenochtitlán, Texcoco e Tlacopán. Nel nome della “Triplice Alleanza” venne dapprima eliminato il regno dei Tepanechi e, a partire dal 1440, sotto il dominio del sovrano Moctezuma I - antenato del più celebre Moctezuma II - ebbe inizio l’inarrestabile ascesa degli Aztechi come padroni di un impero immenso. In breve tempo invasero tutto l’Altopiano del Messico, le terre dei Mixtechi e le regioni del Golfo, obbligando le popolazioni a pesanti tributi: tonnellate di piume, pietre preziose, cotone, cacao ed ogni bene materiale e agricolo necessario al sostentamento di Tenochtitlán. Le gloriose imprese di quell’epoca furono incise sulla “Pietra di Tizoc”, un pesante disco di basalto, scolpito nel 1483. Un impero di così vaste proporzioni era difficile da controllare e sempre più spesso gli Aztechi erano costretti a spedizioni militari punitive per reprimere le popolazioni ribelli, dissanguate dai tributi e dalle vessazioni dei Signori di Tenochtitlán. Con la salita al potere di Moctezuma II nel 1503, la crisi interna si acutizzò, i privilegi dell’aristocrazia monopolizzarono l’intero apparato amministrativo, si inasprirono le guerre contro i popoli ostili ed i confini vennero estesi fino alla Costa del Pacifico e alla Valle di Oaxaca. Al momento dell’arrivo dei Conquistadores nel 1519 l’impero azteco copriva più di 200.000 chilometri quadrati ed era abitato da milioni di persone. [1121] Intorno al 1337 iniziò la costruzione del grande Tempio dedicato al Dio della Guerra, Huitzilopochtli, e al Dio della Pioggia, Tlaloc, che si trova - oggi come allora - nel cuore della città. La Piramide rappresentava la visione cosmogonica degli Aztechi di cui il Tempio era il nucleo centrale, posto tra i quattro punti cardinali - nord “coltello”, sud “coniglio”, est “canna” e ovest “casa” -, tra i tredici Cieli del Mondo della Dualità “Omeyocan” e tra i nove livelli dell’Inframondo “Mictlan”. Il Tempio simboleggiava inoltre il mito della nascita di Huitzilopochtli: la Madre Terra Coatlicue, dopo aver partorito 400 stelle (le divinità minori) e la Dea Luna Coyolxauhqui, fece voto di castità, ma venne ingravidata a sua insaputa da una palla di piume. I figli, insieme alla sorella Luna, decisero di ucciderla, ma uno di loro avvertì il fratello Huitzilopochtli ancora in grembo, che decise di nascere all’istante e di vendicare l’onore della madre, uccidendo la Luna Coyolxauhqui, smembrandola. Questo mito è alla base dell’allegoria del sole che per poter sorgere caccia le stelle e la luna ed è legato ai sacrifici di sangue e al sacro rito del Gioco della Palla. L’immagine della Dea smembrata venne incisa su una gigantesca lastra rotonda che probabilmente si trovava ai piedi della Piramide ed è ora esposta nel Museo del Templo Mayor. Solo leggendo le cronache e guardando gli antichi codici si può avere un’idea della grandiosità del Tempio che venne ricostruito dagli Aztechi quattordici volte e poi raso al suolo dai Conquistadores. Gli scavi della Piramide vennero condotti dal grande archeologo messicano Eduardo Matos-Moctezuma, il quale ha individuato 78 edifici e templi e ha portato alla luce molte sculture di guerrieri, serpenti, aquile e rospi, un grande “tzompantli” (il “muro dei crani”), sette statue addossate alle gradinate del Tempio - che forse rappresentavano i fratelli di Huitzilopochtli - e più di 7000 oggetti votivi, in parte aztechi ed in parte provenienti dalle popolazioni assoggettate. [1131] Quando nasceva un bambino la nutrice gli cantava inni di guerra, augurandogli che un giorno avesse “il privilegio di morire colpito da un coltello di ossidiana”, poichè il sangue del suo cuore, offerto sull’altare di Huitzilopochtli, avrebbe rigenerato l’intero cosmo. Ogni anno centinaia di vittime dovevano versare il loro sangue per nutrire il Sole che, per risorgere, aveva bisogno di quella linfa vitale. Per placare l’ira degli Dei, che si manifestava con carestie, terremoti e inondazioni disastrose, gli Aztechi organizzavano la cosiddetta “Guerra dei Fiori”, ovvero dei combattimenti programmati con i vassalli di Tlaxcala al fine di allenare i guerrieri, di affermare la supremazia degli Aztechi ed anche per procurarsi il maggior numero di prigionieri da offrire in sacrificio. Nelle grandi ricorrenze sacre l’olocausto poteva durare ininterrottamente per quattro giorni e si crede che annualmente fossero eseguiti più di 20.000 sacrifici umani. Alle vittime di basso rango veniva strappato il cuore, il loro teschio veniva appeso ad una rastrelliera (lo “tzompantli”) ed il corpo tagliato a pezzi e mangiato: la coscia spettava al re-sacerdote, mentre il resto del corpo veniva distribuito tra i parenti del guerriero che aveva catturato la vittima. Il prigoniero di alto rango veniva invece portato al Tempio del Dio Xipe Tótec - il “Dio scorticato”, padrone della vegetazione e della rinascita - e lì, legato ad una pietra sacrificale, doveva combattere con armi spuntate contro guerrieri armati di tutto punto prima che gli venisse inciso il torace con un coltello di ossidiana, quindi strappato il cuore e bruciato ed il suo sangue sparso sui templi. La pelle scuoiata della vittima veniva indossata dai sacerdoti per lunghi giorni ed infine seppellita ai piedi del Tempio. I sacrifici dei bambini erano invece dedicati al Dio della Pioggia, Tlaloc: i maschi venivano uccisi sulle montagne vicino alla città ed il loro sangue sparso sulla statua del Dio, mentre le femmine, vestite d’azzurro, venivano sgozzate e gettate nelle acque del Lago Texcoco. [1141] Sotto il regno di Moctezuma II venne scolpito un gigantesco disco di pietra di 3,60 metri di diametro, detto “Piedra del Sol” o anche “Calendario azteco”, ma che in realtà raffigura la cosmogonia di questo popolo. La “Pietra del Sole”, che reca al centro il volto del Dio solare Tonatiuh, venne scoperta nel 1790 sotto il pavimento dello Zócalo, la piazza principale di Città del Messico, dove era stata interrata sfuggendo così alla furia distruttiva dei monumenti e degli idoli da parte dei Conquistadores. Incorniciati da due serpenti di fuoco, vi sono scolpiti i nomi dei venti giorni dei mesi del calendario rituale degli Aztechi e le date commemorative dei “Quattro Soli”, che rappresentano le quattro ere precedenti alla storia azteca, che invece si svolgeva nell’era del “Quinto Sole”, nato nel grande centro cerimoniale di Teotihuacán. I mondi passati erano stati cancellati da una serie di catastrofi divine: inghiottiti dalla voracità dei giaguari, spazzati via dagli urgani, bruciati dal fuoco e sommersi dalle inondazioni. Gli Aztechi, privi di una storia orginaria omogenea, seppero apprendere e rielaborare le arti, le tecniche, i culti e le conoscenze astronomiche delle civiltà che li avevano preceduti e così anch’essi impararono ad adoperare un Calendario Rituale (“tonalpohualli”) di 260 giorni con 5 giorni nefasti ed un Calendario Solare di 365 giorni - calcolato secoli prima dai Maya - mentre i cicli “secolari” degli Aztechi avevano una cadenza di 52 anni. [1151] All’inizio del XIV secolo, appena insediati a Tenochtitlán, un gruppo di Mexica si separarono e fondarono su un isolotto vicino una propria città, chiamata Tlatelolco, che si sviluppò autonomamente come emporio commerciale. Nel 1478 il sovrano azteco Axáyacatl s’impadronì del piccolo feudo e fece precipitare dall’alto della grande Piramide il re locale Moquihuix. Tlatelolco conservò la sua vocazione commerciale e divenne il più grande mercato dell’impero azteco. Al suo arrivo a Tenochtitlán Hernán Cortés rimase abbagliato dalla folla di compratori e venditori e dalla ricchezza delle mercanzie esposte ed il suo cronista Bernal Díaz del Castillo dedicò un lungo capitolo alle meraviglie di Tlatelolco. Le rovine di questo sobborgo vennero messe in luce durante gli Anni Sessanta dagli archeologi dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia: si possono vedere ancora le fondamenta della piramide dove sorgeva il Tempio principale, alcune gradinate, i resti dello “tzompantli” ed una serie di piattaforme disposte secondo il modello del centro cerimoniale di Teotihuacán. La vasta area viene chiamata oggi “Piazza delle Tre Culture” (progettata dall’architetto Mario Pani), poichè abbraccia tre epoche fondamentali per la storia messicana: il centro cerimoniale della Tlatelolco azteca, la chiesa francescana di Santiago del XVII secolo - ciò che resta dell’antico collegio per i figli della nobiltà azteca dove insegnò Bernardino de Sahagún, uno dei più acuti cronisti della Conquista - ed il moderno grattacielo del Ministero degli Affari Esteri, costruito sulle rovine di un tempio dedicato a Quetzalcóatl. [1161] Moctezuma II, dando ascolto alle profezie nefaste dei suoi sacerdoti che prevedevano grandi distrastri per il suo regno, intensificò il ritmo dei sacrifici di sangue per placare gli Dei, in attesa del ritorno di Quetzalcóatl, il Dio dei Toltechi che avrebbe posto fine alle sofferenze degli uomini. Dalla costa erano arrivate notizie su uno straniero barbuto e vestito di lucido metallo, Hernán Cortés, che nella mente degli Aztechi avrebbe potuto essere un messaggero di Quetzalcóatl, se non addirittura il Dio in persona. Moctezuma cercò più volte di impedire la marcia di Cortés verso la capitale, inviandogli ambasciatori con ricchi doni, ma invano: l’8 novembre dell’anno 1519 gli Spagnoli entrarono a Tenochtitlán, sbalorditi dalla mangificienza della città che emergeva dalla laguna. Nonostante fosse stato ricevuto con tutti gli onori, Cortés diffidava di Moctezuma e decise di segregare il sovrano nel suo Palazzo. All’inizio del 1520 Hernán Cortés fu costretto ad abbandonare Tenochtitlán per combattere contro le truppe spagnole inviate dal governatore di Cuba, invidioso dei suoi successi. In sua assenza le cose precipitarono: durante le celebrazioni al Templo Mayor, il suo luogotenente Pedro de Alvarado invase il centro cerimoniale e ordinò di uccidere tutta la nobiltà azteca, un atto ricordato con l’evocativo nome di “mattanza del Templo Mayor”. Al ritorno di Cortés, Moctezuma fu ucciso e nella notte del 30 giugno - la “noche triste”, la notte triste - gli Spagnoli furono costretti a fuggire davanti ad una folla in rivolta. Recuperate le forze, Cortés marciò nuovamente contro Tenochtitlán e questa volta, dopo un assedio durato tre mesi, riuscì a mettere a fuoco e fiamme la città: era il 13 agosto del 1521, una data indimenticabile per il “Vecchio Mondo”. Tenochtitlán venne saccheggiata alla ricerca di tesori da inviare al Re di Spagna Carlo V, furono abbattuti i monumenti e gli idoli, la popolazione venne massacrata o ridotta in schiavitù e l’ultimo sovrano azteco Cuauhtémoc fu torturato e giustiziato. Dalle ceneri di Tenochtitlán nascerà la capitale della “Nuova Spagna” che d’ora in poi si chiamerà “Mexico”. [1172] L’origine dei Mexica è oscura e la loro vera storia inizia con l’insediamento sull’isolotto in mezzo alla Laguna di Texcoco dove giungono intorno al 1325. Nel Codice Boturini un antico disegno mostra le otto tribù dei Mexica che migrano dalla mitica patria Aztlán verso gli Altipiani Centrali: il primo tentativo per fermarsi stabilmente fallisce a causa di un cattivo presagio del Dio della Guerra Huitzilopochtli ed un gruppo - i Tenochca - decide di proseguire il suo viaggio fino al Lago di Texcoco dove vengono fondate due città, Tenochtitlán e Tlatelolco. Per sopravvivere nelle terre paludose gli Aztechi creano le “chinampas”, isolette artificiali sulle quali coltivano il mais e tutte le piante necessarie al sostentamento. [1171] Concluso nel 1428 il patto della “Triplice alleanza” tra Tenochtitlán, Texcoco e Tlacopán, gli Aztechi riescono in breve tempo ad imporsi su quasi tutte le popolazioni vicine. L’impero che nasce si basa su quattro punti fondamentali: la guerra, i tributi dei popoli sottomessi, il commercio ed i sacrifici di sangue. Dal 1376 fino al regno di Moctezuma II (1502-1520) si susseguono nove sovrani con alterne fortune: sono eternamente in lotta con le tribù ribelli e devono affrontare le avversità della natura come inondazioni e siccità che portano a terribili carestie. La carica di Re non è ereditaria e il nuovo monarca viene eletto tra i membri della famiglia reale da un consiglio di sacerdoti, guerrieri e funzionari. Il gradino più alto della scala sociale è occupato dai nobili e dai sacerdoti che officiano i sacrifici e interpretano il Calendario Divinatorio. I guerrieri - tra cui i corpi scelti dei “Guerrieri dell’Aquila” e dei “Guerrieri del Giaguaro” - hanno un ruolo predominante nella società azteca e vengono addestrati fin dalla più tenera età. Il loro compito è soprattutto quello di catturare numerosi nemici vivi al fine di poterli sacrificare sugli altari di Huitzilopochtli, Tlaloc e Xipe Tótec. A questo scopo viene istituita la rituale “Guerra dei Fiori” con combattimenti ciclici e programmati. Cittadini di rango medio-alto e molto stimati sono i “pochteca”, i mercanti, mentre gli artisti e gli artigiani, seppur considerati utili, non godono di privilegi particolari. Molti artisti - orafi, tagliatori di pietre preziose, scultori, acconciatori di piume e mosaicisti - sono di provenienza straniera e vivono in “calpulli” separati, quartieri dove possono mantenere le proprie tradizioni religiose e sociali. Il livello più basso della società è costituito dagli schiavi, una casta di nullatenenti o persone che hanno commesso un crimine. È possibile però riscattarsi e comunque i loro figli sono considerati liberi. Gli Aztechi possiedono due sistemi scolastici: il “calmécac” è riservato ai figli dei nobili che vengono istruiti nella religione, nell’arte della guerra, nella scrittura e nella conoscenza dei Calendari; nel “telpochcalli” invece sono educati i figli dei comuni cittadini, anch’essi addestrati alla guerra, ma anche ai lavori agricoli e artigianali. La lingua ufficiale dell’impero è il “náhuatl”, il “linguaggio elegante e fiorito” degli Aztechi che amano anche organizzare gare di oratoria e di canto. [1182] Moctezuma II regnava da diciassette anni sull’impero azteco, quando nel novembre del 1519 Hernán Cortés compare con un manipolo di uomini davanti alle porte di Tenochtitlán dopo aver marciato per 400 chilometri, combattuto sanguinose battaglie e stretto preziose alleanze con le popolazioni ostili agli Aztechi. Inquieto per le funeste profezie dei suoi sacerdoti e preoccupato per il temuto ritorno del divino “serpente piumato” Quetzalcóatl, Moctezuma ha tentato più volte invano di bloccare l’avanzata di Cortés, ma ora si trova di fronte allo straniero, all’invasore, all’uomo corazzato di metallo che minaccia il re vestito di piume. [1181] Inquieto per le funeste profezie dei suoi sacerdoti e preoccupato per il temuto ritorno del divino “serpente piumato” Quetzalcóatl, Moctezuma ha tentato più volte invano di bloccare l’avanzata di Cortés, ma ora si trova di fronte allo straniero, all’invasore, all’uomo corazzato di metallo che minaccia il re vestito di piume. “Era un uomo di circa 40 anni, di alta statura e ben proporzionato, piuttosto asciutto e di colore olivastro” - così il testimone oculare Bernal Díaz del Castillo descrive Moctezuma - “aveva i capelli non molto lunghi che appena gli coprivano le orecchie, e poca barba nera, ben curata; viso piuttosto allungato e allegro, occhi vivaci, e nel portamento e nello sguardo rivelava bontà e, quando era necessario, anche severità”. L’iniziale pacifico incontro con gli Spagnoli è ingannevole e l’urto tra le due civiltà sarà tremendo. Sorprendentemente Moctezuma mostra soltanto rassegnazione davanti all’inevitabile scontro e si lascia “convincere” a diventare un ostaggio in mano ai Conquistadores. Per quasi due anni si susseguono umiliazioni e saccheggi, battaglie e stragi, durante le quali Moctezuma viene ucciso, e il 13 agosto del 1521 la capitale Tenochtitlán è costretta a cedere sotto i colpi degli Spagnoli. Le cronache di quel fatale evento contengono pagine raccapriccianti e pesano sulla coscienza di tutta l’umanità. Così scrive Bernal Díaz del Castillo: “Ho letto il racconto della distruzione di Gerusalemme; ma credo che là non ci siano stati tanti morti come qui a Messico...ci muovevamo in mezzo ai cadaveri, ed era tanto il fetore che non lo potevamo sopportare...tutte le strade erano piene di uomini, donne e bambini così magri, patiti, sudici e puzzolenti che facevano proprio pena...La città poi era come un campo arato; avevano strappato persino le radici pur di mangiare qualche cosa e avevano cotto anche le cortecce degli alberi... Dopo aver conquistato una così grande e popolosa città, celebre in tutto il mondo, Cortés prima rese grazia a Dio e alla Madonna, poi fece fare un gran banchetto...”. In una cronaca postuma Bernardino de Sahagún scriverà: “...scorreva sangue come l’acqua quando piove, tutto il cortile era disseminato di teste, braccia, di viscere e di corpi trucidati. In ogni angolo gli Spagnoli frugavano tra i corpi per ammazzare chi era ancora vivo...allora gli Spagnoli cominciarono a togliere l’oro dalle piume, dagli scudi e dagli altri addobbi cerimoniali...per togliere l’oro distrussero tutti i piumaggi e i bei gioielli. L’oro, poi, lo fusero e ne fecero lingotti.” Bartolomé de Las Casas, il difensore degli Indios, descrive come gli Spagnoli, al grido di “Santiago”, compivano le stragi: “Furono enormi e abominevoli le tirannie perpetrate a Messico...popolazioni infinite perirono...e poi si diffuse e dilagò una feroce pestilenza: dire di tutti gli scempi, degli assassini e delle crudeltà commesse in quella terra sarebbe impresa invero difficilissima, se non impossibile, e il racconto sarebbe insopportabile da udirsi.” Non bisogna credere che le notizie sulla conquista del Messico che giungevano allora in Europa fossero accolte da tutti con entusiasmo. Vi furono uomini di grande intelletto che fecero sentire la loro voce critica e tra essi Michel de Montaigne (1533-1592) che scrisse nei suoi “Saggi” a proposito dei massacri nel “Nuovo Mondo”: “Noi abbiamo i resoconti (degli Spagnoli) da loro stessi, poiché non solo li confessano, ma se ne vantano e li divulgano. Sarebbe forse per testimonianza della loro ingiustizia? O di zelo verso la religione?...Se si fossero proposti di diffondere la nostra fede, avrebbero considerato che non è per conquista di terre che essa si propaga, ma per conquista di uomini...senza unirvi con indifferenza un macello come se si trattasse di bestie selvagge, totale, fin dove il ferro e fuoco poterono giungere...Quelli del regno del Messico erano in qualche modo più civili e più industriosi delle altre popolazioni di laggiù. Essi pensavano, come noi, che l’universo fosse prossimo alla fine, e interpretarono la desolazione che vi abbiamo inflitto come segno di quell’evento”. [121] Il centro di Città del Messico ha conservato molti aspetti del suo carattere spagnolo, anche se la storia turbolenta del paese ha cambiato e ridefinito più volte l’immagine della città. All’epoca della proclamazione d’Indipendenza nel 1821 - esattamente tre secoli dopo l’entrata di Cortés a Tenochtitlán - la città conta 160.000 abitanti ed è la più grande metropoli dell’America Latina. Durante il regime del despota Porfirio Díaz, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Città del Messico diventa un immenso cantiere: viene bonificata gran parte del Lago di Texcoco per poter espandere la città che nel 1940 raggiungerà quasi 2 milioni di abitanti. Seguono anni difficili tra sommosse popolari e rivolte studentesche, alle quali si aggiungerà nel 1985 un disastroso terremoto che costerà migliaia di vittime e metterà la città in ginocchio. [1211] Il cuore della città è lo Zócalo, l’immensa piazza quadrata che ufficialmente si chiama “Plaza de la Constitución” e che venne pianificata al tempo di Cortés secondo i canoni urbanistici a scacchiera sul modello rinascimentale spagnolo. Lo Zócalo, insieme al primo nucleo cittadino, occupa l’area che era il fulcro dell’antica Tenochtitlán azteca dove si trovavano il “Teocalli”, il recinto sacro, la residenza di Moctezuma II e il “tiangui”, il mercato degli scambi. Anche in periodo coloniale la piazza continuò ad essere il centro commerciale e amministrativo della città, ma vi si svolgevano anche corride ed esecuzioni capitali. Lo Zócalo è il polso vitale della città che batte ad ogni ora del giorno e della notte: all’alba squillano le trombe della Guardia Nazionale che issa l’immensa bandiera del Messico, durante il giorno si discute, si vende, si compra e si passeggia, la sera risuonano i tamburi che accompagnano le danze, più o meno autentiche, degli Indios per ricordare che l’identità azteca non è morta e di notte continua il bivacco dei gruppi di protesta che spesso vi piantano le loro tende. [1221] Sullo Zócalo si affaccia il “Palacio Nacional” sede del Presidente della Repubblica, del Tesoro, dell’Archivio di Stato e della più grande Biblioteca del Messico. Anticamente vi sorgeva il Palazzo di Moctezuma, distrutto e saccheggiato dagli uomini di Cortés che frantumarono gli arredi e strapparono le vesti ed i piumaggi per recuperare gli ornamenti d’oro. Sulle sue macerie Cortés fece costruire il “nuovo palazzo” che nel 1526 divenne sede del Vicerè spagnolo. Semidistrutto durante una rivolta del XVII secolo, il Palazzo venne ricostruito nella forma attuale: un lunghissimo edificio con quattrodici patii e una vasta corte centrale che venne decorata negli Anni Trenta con i possenti murales di Diego Rivera che illustrano la “Storia del Messico”, la “Lotta di Classe” e la “Grande Tenochtitlán”. Sopra il portale principale pende la “Campana di Dolores” che, suonata nel 1810 dal prete rivoluzionario Miguel Hidalgo, annunciò con i suoi tocchi l’inizio della Guerra di Indipendenza, un evento che viene celebrato solennemente ogni anno, il 16 settembre, sulla piazza dello Zócalo. [1231] Tra lo Zócalo e il “Templo Mayor” sorge la grande Cattedrale fondata all’inizio del XVI secolo sulle rovine azteche che comprendevano il Tempio del Dio Xipe Tótec e lo “tzompantli”, il macabro “muro dei crani”. La facciata barocca risale al 1573, ma negli anni seguenti vennero operate numerose aggiunte, tanto che la Cattedrale fu terminata soltanto nel XVIII secolo, quando vi venne esposto un ricchissimo retablo d’oro che splende ancora dietro l’”Altare de los Reyes”. Posato sul fragile suolo paludoso di Città del Messico, l’edificio è eternamente a rischio - come del resto tutta la città che ogni anno sprofonda di diversi centrimetri - e viene sottoposto a continui restauri e lavori di consolidamento. Confinante, ma indipendente dalla Cattedrale, fu eretto nel 1768 il Sagrario Metropolitano, un magnifico esempio dello stile churrigueresco nel quale risaltano le pietre grigie basaltiche alternate al “tezontle”, la rosata pietra vulcanica che caratterizza gli edifici di Città del Messico dal tempo degli Aztechi. [1241] Il Centro Storico di Città del Messico è di vastissime proporzioni e occupa una superficie di 15 chilometri quadrati con 1500 edifici, databili dal XVI al XIX secolo, posti sotto la tutela delle istituzioni preposte alla salvaguardia dei monumenti. La prima pianta della città è stata attribuita a Hernán Cortés che inviò al re Carlo V di Spagna un disegno che mostrava il “Teocalli” circondato dai vari quartieri che emergevano come isole in mezzo ai canali della laguna. I canali vennero poi interrati e gran parte della laguna prosciugata e della “città galleggiante” non rimase che la memoria dei cronisti antichi. Gli effetti del terribile terremoto del 1985, che ha gravemente danneggiato l’intero patrimonio storico, si vedono ancora e ci vorranno molti anni ed enormi sforzi economici prima che i numerosi progetti di restauro e di conservazione possano concludersi. Dall’alto della “Torre Latino-Americana” si gode una vista a 360 gradi sulla città e si scorgono, tra le cupole ed i palazzi d’epoca coloniale, molti edifici in stile neoclassico - il Palazzo delle Belle Arti, la grande Posta, i ministeri ed i teatri - costruiti durante il grande fermento edilizio dei primi anni dell’indipendenza nazionale. [1251] Una folla inverosimile si riversa ogni giorno nelle vie e nelle piazze e altrettanto caotico è il traffico che scorre lungo le “avenidas” e le “ejes vides”, le autostrade urbane che collegano il centro con gli innumerevoli quartieri periferici. Una delle arterie più importanti è il “Paseo de la Reforma” che taglia la città da est a ovest e che venne aperto alla metà dell’Ottocento, quando la capitale era occupata dalle truppe francesi che vi insediarono un imperatore straniero, Massimiliano d’Asburgo, fucilato nel 1867 dalle truppe rivoluzionarie del Presidente Benito Juárez. Il “Paseo” è intervallato da numerose “glorietas”, le “rotonde spartitraffico”, sulle quali vennero eretti dei trionfali monumenti dedicati a uomini illustri, dall’ultimo sovrano azteco Cuauhtémoc a Cristoforo Colombo. In posizione elevata svetta la “Colonna dell’Angelo d’Oro”, circondata alla base dagli eroi dell’Indipendenza e che è diventata una specie di simbolo del Messico libero. [1261] Il luogo deputato per incontrarsi sono le piazze, ognuna delle quali possiede caratteristiche proprie a seconda delle attività che vi si svolgono. Piazza Garibaldi brulica di “mariachis”, i musicisti originari del Jalisco, vestiti nel tradizionale costume nero da “charro”, tempestato da bottoni d’argento: suonano tutti gli strumenti a corda, dalla chitarra all’arpa, e talvolta anche la tromba. L’origine del nome “mariachi” è misteriosa: taluni affermano che si tratti di una storpiatura del francese “mariage”, poiché le bande suonavano alle nozze, altri sostengono che provenga dalla “Vergine Maria”, perché i musicisti accompagnavano con le loro canzoni le processioni mariane. Gremita è anche la Piazza di Santo Domingo, dove un tempo visse “Doña Marina”, o “Malinche”, la principessa indigena fedele alleata, interprete e compagna di Hernán Cortés. Sotto il porticato della piazza attendono gli “evangelistas”, gli scrivani e i tipografi al servizio dei clienti per compilare documenti ufficiali e per scrivere missive d’amore e biglietti d’augurio. Di fronte alla chiesa barocca di Santo Domingo si trova il possente edificio dell’Antica Scuola di Medicina, un tempo prigione dei famigerati tribunali della Santa Inquisizione che operò in Messico fino al 1815 e che oggi ospita il Museo di Storia della Medicina. [1271] Il polmone verde della città è il Parco di Chapultepec, la “collina delle cavallette” dove giunse nel XIII secolo il popolo dei Mexica dopo un lungo perigrinare tra gli altipiani e le vallate. Da qui vennero cacciati verso l’isola sul Lago di Texcoco, ma in seguito ripresero possesso del bosco di Chapultepec, già allora considerato luogo di riposo e di svago per i sovrani, nonché preziosa fonte delle acque potabili che alimentavano il “Teocalli” di Tenochtitlán. Il parco comprende la residenza ottocentesca dell’arciduca Massimiliano, vari musei (tra cui lo splendido Museo Nazionale di Antropologia), uno zoo, il giardino botanico e numerose aree ricreative. Tra i parchi cittadini il più visitato è il centrale Parco dell’Alameda, creato nel 1592 dal Vicerè Luis de Velasco al posto di un mercato azteco per poter celebrare i pubblici “autodafé” dell’Inquisizione. I roghi che videro bruciare gli “eretici” appartengono fortunatamente al passato ed oggi il parco si è riempito di nuovo di bancarelle, bambini e innamorati e di qualche oratore che incita a credere in Dio, a comperare una pozione miracolosa o a manifestare contro le ingiustizie del mondo. [1281] I “tianguis” di antichissima tradizione possono essere mercati stabili, stagionali o improvvisati e sono l’aspetto più vitale e colorato della città. Oggi come allora, i venditori d’ambra, di tessuti, di artigianato, di libri, di frutti esotici, di fiori e di varie chincaglierie affollano lo Zócalo, le strade, le piazze, i parchi e i porticati intorno alle chiese. Molti vengono dai paesi circostanti o da regioni lontane, portando i loro prodotti nella grande città, e spesso si possono trovare degli oggetti veramente belli e singolari. Oltre ai mercati di strada, Città del Messico possiede numerosi centri di Arte e Tradizioni popolari, veri e propri bazar dove sono in vendita preziosi e autentici manufatti indigeni - sculture in terracotta e legno, vasellame, ricami, gioielli e lacche - raccolti nei villaggi dove le tradizioni culturali sono ancora vive e vengono trasmesse di generazione in generazione. [1291] Città del Messico è costellata di chiese, sontuose e modeste, costruite in posizione dominante o nascoste tra gli edifici coloniali, frequentate da folle di fedeli e pellegrini, oppure vuote e abbandonate come un monumento che ha esaurito la sua funzione. Nel 1528, subito dopo la Conquista, venne istituito il vescovato del Messico, allora presieduto da padre Juan de Zumárraga che fece abbattere gli ultimi idoli. Francescani e Domenicani fondarono una miriade di chiese, conventi e collegi per educare gli indigeni alla fede cristiana. Le prime chiese erano austere, costruite secondo lo stile rinascimentale con elementi gotici, ma poi divennero sempre più trionfali, con facciate barocche esuberanti, ornamenti churriguereschi e ricche decorazioni interne sovraccariche d’oro, tanto che il Vicerè Antonio de Mendoza dovette richiamare gli Ordini religiosi alla moderazione. Una delle chiese più note è San Francesco d’Assisi, stretta tra i palazzi della centralissima Via Madero: si tratta dell’unico edificio superstite di un convento francescano fondato nel 1524 per volontà di Hernán Cortés e costruito sulle rovine del “serraglio” di Moctezuma. Questa chiesa, nella quale venne celebrato il primo Concilio dei vescovi messicani, fu smantellata durante il periodo del governo riformista e riconsacrata al culto soltanto all’inzio del nostro secolo. [1301] L’antica Università di Città del Messico venne fondata già nel 1551 ed era la prima in assoluto di tutto il continente americano. La moderna Università risale invece al 1929, quando venne creata l’UNAM (Universidad Nacional Autónoma de Mexico), e attualmente è il campus più grande e più frequentato dell’America Latina. Situata in un vasto parco di circa trecento ettari, la maggior parte dei suoi edifici vennero costruiti negli Anni Cinquanta dagli architetti Mario Pani, José García Villagrán ed Enrique de Moral. Alla realizzazione parteciparono numerosi pittori e scultori ed oggi la Città Universitaria è diventata una specie di fiera dell’architettura contemporanea che contiene alcune opere spettacolari, come la sistemazione drammatica e teatrale di un antico campo di lava, trasformato in un suggestivo “Espacio Escultórico” con grandi blocchi di cemento che cingono i neri massi vulcanici. Frequentata da circa 300.000 studenti, l’Università è stata in passato al centro di violenti scontri tra dissidenti politici e forze governative che furono seguiti con apprensione in tutto il paese. Oggi la Città Universitaria è aperta a tutti i visitatori, ma è proibito l’ingresso alla polizia e ai militari. [1311] Senza dubbio il Museo di Antropologia di Città del Messico è una delle istituzioni museali più belle e ricche del mondo. Il complesso del Museo venne progettato all’inizio degli Anni Sessanta dall’architetto Pedro Ramírez Vázquez, mentre il grande “ombrello” di pietra, che poggia su un elevato monolite bagnato dall’acqua e che copre una parte del cortile interno, è opera dello scultore José Chavez Morado. Nelle vaste sale dei padiglioni su due piani, distinti in vari settori, sono esposte le opere di tutte le civiltà che hanno composto il mosaico culturale del Messico, dalla Preistoria alla civiltà olmeca (la cultura-madre della Mesoamerica), dalla cultura di Teotihuacán al trionfo dei Maya, dalle popolazioni Zapoteco-Mixteche di Oaxaca a quelle Totonaco-Huasteche del Golfo, dalla civiltà Tolteca alle culture delle Terre d’Occidente, dal popolo dei Taraschi all’impero azteco. Questo museo, al di là dei capolavori che vi sono esposti - tra cui la “Piedra del Sol”, le giade olmeche, le stele istoriate dei Maya, le maschere ed i volti dei sovrani precolombiani e le immagini terrificanti degli Dei dalla duplice natura umano-animale - possiede un’atmosfera magica: le figure degli antichi emergono dalle ombre in una luce calda trasmutandosi in messaggeri di un mondo perduto, ma non dimenticato. [1322] Dall’anno della Conquista nel 1521 i Messicani diventano cittadini della “Nuova Spagna”, governati dai Viceré spagnoli e oppressi dagli “hacendados”, i ricchi possidenti terrieri. Nei primi anni del XIX secolo il Messico insorge, incitato dal prete rivoluzionario Miguel Hidalgo e dal militare di carriera Ignacio de Allende che lanciano il “Grido di Dolores” che segna, il 16 settembre dell’anno 1810, l’inizio della rivolta indipendentista. Poco dopo Allende viene ucciso, Hildalgo consegnato all’Inquisizione e fucilato, ma l’insurrezione non si fermerà e sarà guidata da un altro prete, José Mario Morelos, anch’egli fucilato, dopo aver dato al Messico nel 1815 una prima Costituzione repubblicana. [1321] La proclamazione ufficiale dell’Indipendenza - nel 1821 - spetta ad un personaggio ambiguo, Augustin de Iturbide che si autoproclama “Primo Imperatore” del Messico, vanificando le speranze repubblicane. Sono anni tumultuosi e terribili: Iturbide viene esiliato e poi ucciso nel 1823; tornano alla ribalta i repubblicani e viene promulgata una nuova Costituzione; nel 1848 il Messico perde gran parte dei suoi territori - tra cui il Texas e la California - ed in tutto il paese infuria la Guerra Civile. Nel 1858 sale al potere Benito Juárez, già ministro di un governo liberale, che cerca di risollevare le sorti del Paese emanando la prima Costituzione federale e annullando il grave debito estero contratto dai suoi predecessori. A causa di ciò si troverà a dover combattere contri i Francesi di Napoleone III - garanti del prestito - che nel 1862 riescono ad occupare Città del Messico e ad imporre l’arciduca austriaco Massimiliano d’Asburgo come imperatore. Nel 1867 Massimiliano è giustiziato dalle truppe indipendentiste e Benito Juárez viene rieletto Presidente. Ostacolate dai gruppi di opposizione clericali e militari, le riforme tardano a realizzarsi e nel 1876, con un colpo di stato, s’impadronisce del potere il generale Porfirio Díaz, che governerà il Paese per trentacinque anni con metodi dittatoriali. Nel 1910 scoppia nuovamente la rivoluzione, guidata dall’intellettuale borghese Francisco Madero e combattuta sul campo dai “peones” di Pancho Villa e di Emiliano Zapata. In pochi mesi tutto il Messico insorge e nel maggio del 1911 Porfirio Díaz è costertto all’esilio. Il nuovo capo del governo è ora Madero, che però si dimostrerà troppo debole per resistere alle pressioni dei gruppi di potere militare ed economico, appartenenti per lo più al vecchio regime. Madero viene asssassinato nel 1913 da uno dei suoi generali e Pancho Villa riprende le armi raggiungendo Emiliano Zapata che non aveva mai abbandonato la lotta. Nel 1914 Villa e Zapata riconquistano Città del Messico, ma la pace è ancora lontana: Zapata verrà ucciso nel 1919, mentre Villa si ritirerà a vita privata e sarà ucciso in un agguato nel 1923. La guerra civile non è finita, altre masse contadine insorgono - i cattolici “cristeros” - ed il Messico, stremato, piange un milione di morti. Nel paese si alternano regimi dittatoriali e governi riformisti fino a quando, nel 1935, si impossessa del potere Lázaro Cárdenas, il primo Presidente che tenta di ripristinare le libertà civili e religiose e che si assume l’impegno di portare avanti una politica progressista e di riforme. [21] Per molti secoli i luoghi delle antiche culture del Messico sono stati ignorati dagli uomini: erano stati abbandonati dai loro abitanti, rasi al suolo durante le numerose invasioni nemiche o crollati a causa di terremoti e uragani. Le città monumentali dei Maya, degli Zapotechi e degli Aztechi erano diventate quasi invisibili agli occhi dei viaggiatori, ormai avvolte dalla esuberante vegetazione delle foreste tropicali. Quello che la natura aveva risparmiato, venne distrutto all’arrivo dei Conquistadores nel XVI secolo e soltanto faticosamente, grazie all’impegno di archeologi e antropologi coraggiosi, si sono potuti recuperare i grandiosi monumenti che ci raccontano la storia delle antiche popolazioni del Messico. Vediamo allora rinascere dalle ceneri e dalla terra le piramidi di Palenque e di Uxmal, gli edifici monumentali di Chichén Itzá e di Monte Albán, la metropoli di Teotihuacán e le sculture colossali di La Venta. [211] Nella valle di Anáhuac, a poco più di cinquanta chilometri da Città del Messico, nasce tra il II e il VII secolo della nostra era uno dei più importanti centri religiosi del Messico antico, Teotihuacán, un’immensa metropoli che nel periodo del suo apogeo - tra il V e il VII sec.d.C. - era abitata da circa duecentomila abitanti. Si ignora il nome originario della città alla quale gli Aztechi, mille anni più tardi, diedero il nome “Teotihuacán”, una parola in lingua nahua che significa “il luogo dove si creano gli Dei”. [2111] Teotihuacán sorge in una valle fertile e ricca d’acqua nell’altopiano del Messico, circondata da monti pieni di selvaggina e ricchi giacimenti di ossidiana e altri minerali che contribuiscono alla fortuna della città, che diverrà il polo commerciale più potente della Mesoamerica. Teotihuacán viene concepita secondo un grandioso disegno urbanistico che si articola su una superficie di 22 chilometri quadrati e che verte intorno ad un asse centrale, il cosiddetto Viale dei Morti, lungo più di due chilometri e dominato dalla gigantesca mole della Piramide del Sole, posta nel cuore della via sacra, e dalla grande Piramide della Luna che segna il punto d’arrivo sul lato nord. Sull’origine della popolazione che ha saputo inventare una città di sorprendente spazialità, dotandola di opere architettoniche di enormi dimensioni, si possono fare tutt’ora soltanto delle congetture. Gli antichi cercarono una risposta nel mito, attribuendo la costruzione delle piramidi agli Dei o ai giganti, mentre oggi si pensa che nella valle di Teotihuacán confluirono probabilmente vari gruppi di popolazioni, dotate di grande inventiva e intelligenza, ed anche di ricchezze economiche sufficienti da poter ideare una città-stato, nonché centro religioso, capace di estendere la sua influenza oltre l’altopiano centrale del Messico, raggiungendo terre molte lontane come quelle dei Maya, degli Zapotechi e delle popolazioni del Golfo. [2121] L’edificio più imponente di Teotihuacán è la Piramide del Sole, costruita a quattro livelli sovrapposti su una base di circa 225 metri per lato e alta in origine 75 metri, compreso il tempio sulla sommità, ora scomparso. La facciata principale della Piramide è orientata verso il punto esatto in cui tramonta il sole nel giorno del solstizio d’estate e ciò conferma l’ipotesi che a Teotihuacán il culto del Sole avesse particolare importanza, anche se si ignora a quale divinità fosse consacrato il tempio che coronava la cima. La Piramide era interamente coperta di stucco dipinto di rosso e quando il colore si accendeva nella luce fiammante del tramonto il suo aspetto doveva essere insieme grandioso e terribile. Nel 1971 vennero scoperti alla base della Piramide del Sole un pozzo profondo sette metri ed una galleria sotterranea che termina in una grotta naturale, ubicata esattamente al centro dell’edificio. Nella caverna vennero trovati specchietti di ardesia per uso rituale e frammenti di ceramica del primo periodo di Teotihuacán: la grotta sacra è certamente antecedente alla costruzione della Piramide, ma la sua funzione in relazione al culto del Sole o di altre divinità rimane oscura. [2131] La Piramide della Luna, posta all’estremo nord del Viale dei Morti, è di dimensioni inferiori alla Piramide del Sole, ma, essendo costruita su un terreno più elevato, la cima risulta perfettamente allineata a quella della piramide più grande. Dalla sommità si ha una visione incomparabile sull’immenso viale, sulle piazze, sulle piattaforme scandite dalla geometria delle scalinate e sui palazzi del centro cerimoniale, pianificato con un rigoroso disegno matematico e orientato secondo il cammino del sole dall’aurora allo zenit e fino al tramonto. Al tempo del massimo splendore di Teotihuacán tutti gli edifici, apparentemente così spogli e rigidi, erano dipinti con colori esuberanti, di rosso, azzurro, verde e giallo, e bisogna immaginare che tra queste architetture che oggi sembrano astratte si muoveva una folla di persone abbigliate con vesti e ornamenti preziosi. La Piramide della Luna si sviluppa su cinque livelli, costruita secondo la tecnica chiamata “talud-tablero” che consiste nell’alternare pareti inclinate con pareti ripide incorniciate da lastre di pietra, una forma architettonica usata per la prima volta a Teotihuacán intorno al III sec. d.C. e che verrà adottata nei secoli seguenti da molte civiltà mesoamericane per quasi tutte le strutture piramidali. [2141] Il rettilineo Viale dei Morti - lungo più di 2 chilometri e largo circa 45 metri - include due grandi piazze cerimoniali con piattaforme e altari, una davanti alla Piramide del Sole e l’altra davanti alla Piramide della Luna. Lungo tutto il tracciato si trovano numerosi templi e palazzi residenziali riservati alla casta sacerdotale e ai nobili. Uno degli edifici meglio conservati è il Palazzo di “Quetzalpapálotl”, probabile residenza dei sommi sacerdoti. Il patio interno è protetto da mura merlate sulle quali sono incisi i simboli degli anni, mentre sui pilastri della galleria sono stati scolpiti degli animali stilizzati tra cui spicca il “quetzalpapálotl”, un mitico uccello-farfalla dalle piume color smeraldo. Tutte le figure erano dipinte e ornate da dischetti di ossidiana, la preziosa pietra vulcanica vetrificata di cui Teotihuacán possedeva il monopolio del commercio. Vicini al “Quetzalpapálotl” si trovano il Palazzo dei Giaguari e l’edificio dei “Caracoles emplumados”, le “Chiocciole piumate”: entrambi gli ambienti erano decorati con ricchi stucchi e affreschi di cui sono rimaste alcune tracce che mostrano serpenti, giaguari e animali mitologici. Proseguendo sul Viale dei Morti, intervallato da numerose gradinate per superare il dislivello del terreno, si incontrano templi, strutture piramidali, labririntici complessi palaziali e molti “edifici sovrapposti”: si tratta di strutture antiche che venivano rinnovate ciclicamente, sovrapponendo un edificio all’altro e inglobando scale, altari, stucchi e sculture. [2151] All’estremo lato sud del Viale dei Morti venne costruita la cosiddetta “Cittadella”, un complesso delineato da quattro piattaforme riservate ai sacerdoti e ai governanti. La struttura piramidale del Tempio di Quetzalcóatl, il mitico sacerdote-sovrano divinizzato nell’immagine del “serpente piumato”, è nascosta da una piattaforma aggiunta dopo il II-III sec.d.C., epoca in cui venne eretto il Tempio più antico che possiede sette livelli sovrapposti, formati dalla combinazione “talud-tablero” con panelli incorniciati che recano 366 sculture. Grandi teste di serpente circondate da un collare di undici petali (che forse rappresentano piume di “quetzal”, un uccello variopinto ormai estinto) si alternano a maschere stilizzate coperte di squame con grandi occhi cerchiati e due zanne sporgenti, associate forse al Dio della Pioggia o al Dio del Mais. Intorno ai serpenti e alle maschere vi sono incrostazioni di ossidiana, tracce di pittura verde - il colore che simboleggiava la giada - su fondo rosso e numerose conchiglie e chiocciole di stucco. Per lungo tempo si è creduto che i riti religiosi di Teotihuacán non includessero sacrifici umani, ma il ritrovamento nell’area della “Cittadella” di numerosi scheletri di sacerdoti sacrificati, cosparsi di conchiglie e figurine d’argilla, con le mani legate sulla schiena e pezzi di giada nella bocca, ha vanificato l’idea dei cerimoniali “pacifici” di Teotihuacán. [2161] Teotihuacán I Riguarda il periodo che va dal 200 a.C. all’anno 0, chiamato Patlachique. La popolazione è formata da agricoltori e artigiani dell’ossidiana, un materiale che farà la fortuna economica di Teotihuacán. Nasce il primo impianto del centro cerimoniale con il Viale dei Morti e la prima struttura della Piramide del Sole, costruita sopra la grotta sacra, che forse fungeva da luogo di divinazione oracolare o rappresentava il Chicomóztoc, le “sette grotte” simbolo della nascita e della vita, nonché pozzo sacrificale dedicato alle divinità dell’Acqua, oppure era venerata come Cincalco, la “casa del Mais”, legata al mito di Quetzalcóatl che recupera dalle viscere della terra il nutrimento per gli uomini. Teotihuacán II Riguarda i periodi che vanno dal I sec.d.C. alla prima metà del IV sec.d.C., chiamati Tzacualli e Micaotli. Teotihuacán diventa la più grande metropoli del mondo antico con un estensione di 22 chilometri quadrati (superando nelle dimensioni una capitale della stessa epoca come Roma). Vengono completate le piramidi del Sole e della Luna e costruiti la “Cittadella” e il Tempio di Quetzalcóatl, ubicati su un asse trasversale del Viale dei Morti che divide la città in quattro immensi quartieri con grandi complessi abitativi di 50-60 stanze sistemate intorno ad un patio comune. Teotihuacán III Riguarda i periodi che vanno dalla seconda metà del IV sec.d.C. alla prima metà del VII sec.d.C., chiamati Tlalimimolpa e Xolalpan. Siamo all’apogeo di Teotihuacán, una potente città-stato cosmopolita che irradia e riceve cultura da luoghi molto distanti tra loro: dall’altopiano al Golfo del Messico, dalla civiltà zapoteca di Monte Albán fino al mondo Maya, dove si riconoscono influenze teotihuacane. Il commercio basato sullo scambio - ad esempio utensili e oggetti di ossidiana e giada contro cacao, piume e turchesi - diventa un veicolo prezioso per far circolare le proprie ideologie, diffondere i propri riti religiosi e insegnare nuove tecnologie. A quell’epoca Teotihuacán è abitata da circa 200.000 persone e diventa meta di pellegrinaggi e di massicce immigrazioni. Teotihuacán IV Riguarda il periodo del declino tra la seconda metà del VII e l’VIII secolo ed è chiamato Metepec. Nel VII secolo il monopolio commerciale entra in crisi e intorno al 750 d.C. vengono abbattuti i templi ed incendiati i palazzi. Le cause della fine violenta e improvvisa di Teotihuacán sono misteriose: alcuni studiosi attribuiscono il crollo alle invasioni e ai saccheggi da parte di popoli barbari venuti dal nord; altri pensano che vi sia stata una rivolta dei tributari o delle classi subalterne di Teotihuacán, mentre altri ancora ritengono che gli incendi e le distruzioni siano state provocate dagli stessi sacerdoti consapevoli della propria impotenza di fronte ai gruppi nemici che premevano alle porte. A prescindere dalle ragioni materiali e fisiche che avrebbero portato alla caduta di Teotihuacán, bisogna considerare anche il processo naturale di stanchezza e decadenza di una civiltà che per più di cinque secoli aveva mantenuto il controllo assoluto su gran parte del territorio messicano. [2172] Intorno al IX secolo, tra le rovine abitate ancora da modesti agricoltori e artigiani, si stabiliscono i Toltechi di Tula, ragion per cui gli Aztechi, più tardi, credettero che Teotihuacán fosse una città tolteca. La fama di Teotihuacán come luogo sacro non si era mai spenta, tanto che alcuni cronisti riferiscono che lo stesso Moctezuma II, sovrano degli Aztechi e avversario di Hernán Cortés, si recò ai templi per compiere sacrifici e innalzare la statua di una divinità azteca sulla sommità della Piramide del Sole. [2171] Tuttavia la città era ormai entrata nell’oblio: durante la ritirata dalla capitale azteca, Hernán Cortés fece passare le sue truppe davanti a Teotihuacán in rovina, ma non la ricordò nei suoi diari neppure con un rigo. Alla fine del XVII secolo vengono esplorate sporadicamente le piramidi del Sole e della Luna, mentre nel 1882 iniziano i primi scavi del francese Désiré Charnay che suscitano l’interesse di un archeologo autodidatta, Leopoldo Batres, imparentato con il presidente-didattore Porfirio Díaz. Batres commette molti errori di ricostruzione, tra cui alcuni irrimediabili come l’aggiunta di una quinta terrazza sulla Piramide del Sole. Nel 1917 i lavori proseguono con metodi scientifici sotto la guida dell’archeologo Manuel Gamio che scopre la Piramide di Quetzalcóatl. Negli anni Trenta viene indagata la vasta area urbana dallo svedese Sigvald Linné e negli anni Sessanta vengono eseguiti i lavori di recupero del centro cerimoniale sotto la guida dei grandi archeologi messicani Ignacio Bernal e Jorge Acosta. Da allora si sono susseguiti numerosi progetti speciali di scavo e di restauro a Teotihuacán, che hanno portato alla scoperta di preziose pitture murali, sculture e offerte votive, di scheletri, della caverna sacra sotto la Piramide del Sole e di oltre 2000 complessi abitativi ancora da scavare, individuati dalla fotografia aerea e segnati sulla mappa topografica eseguita dall’archeologo René Millon. [221] Nelle terre che si affacciano sul Golfo del Messico, tra le regioni del Tabasco e del Veracruz, si sviluppa tra il II e I millennio a.C. una grande civiltà, quella degli Olmechi, ritenuti i precursori di tutte le grandi culture mesoamericane. Il nome originario di quella popolazione è rimasto ignoto e gli studiosi hanno deciso di chiamarla “olmeca”, utilizzando un’antica definizione azteca per quella regione del Golfo, indicata come “Olman”, il “paese del caucciù”. La civiltà olmeca è la “cultura-madre” di tutte le popolazioni mesoamericane, non soltanto perché l’arte, i culti e i centri cerimoniali hanno costituito un modello al quale si sono ispirate tutte le future generazioni, ma perché “olmeca” era un modo di sentire e di agire, era un’ideologia prevalentemente pacifica che venne condivisa da tutte le civiltà che erano entrate in contatto con quel mondo. [2211] Nell’umida foresta tropicale tra acquitrini e fiumi sorsero intorno al XV sec. a.C. i primi insediamenti olmechi, simili ad isolotti in mezzo alle paludi. Dopo la caduta di San Lorenzo, il primo grande centro olmeco che ebbe il suo apogeo tra il 1150 e il 900 a.C., sarà La Venta a diventare la capitale religiosa e amministrativa della regione. La città venne fondata intorno al 1000 a.C., costruita a poca distanza dalla costa, in prossimità della foce del fiume Tonala nell’attuale Stato del Tabasco. Per circa quattro secoli, a partire dal 900 a.C., gli Olmechi di La Venta riuscirono a dominare le regioni del Golfo e a controllare le vie commerciali dell’ossidiana e della giada. [22111] La Venta è stata vittima di un destino crudele dovendo morire due volte: la prima volta nel 500 a.C. quando crollò l’economia olmeca e la città venne distrutta e abbandonata; la seconda in tempi moderni quando, negli anni Cinquanta, i suoi monumenti furono costretti a “sloggiare” dal sito originario per far posto all’industria petrolifera che vi aveva scoperto dei ricchi giacimenti. Quello che resta delle rovine di La Venta appare oggi come un’oasi snaturata tra capannoni industriali, raffinerie e un campo di baseball. Eppure merita una visita quel fazzoletto verde che le è stato riservato: al centro di un prato emerge la grande piramide d’argilla a forma conica, coperta di erba, che sovrasta l’antico piazzale cerimoniale, un tempo delimitato da colonne di basalto. Vi erano vari tempietti, un mausoleo colmo di offerte votive e alcune fosse lastricate con mosaici di pietra verde che raffiguravano teste di giaguari e serpenti stilizzati. Più oltre vennero rinvenute quattro delle celebri teste colossali di basalto che costituiscono la meraviglia, ma anche il grande enigma della civiltà olmeca. Lungo i sentieri della piccola giungla risparmiata dal cemento sono esposte una serie di copie di altari, stele e monumenti a memoria degli originali che ora si trovano a più di cento chilometri di distanza, nel Parco Archeologico di Villahermosa. [22121] Fu un viaggiatore messicano, José Maria Melgar y Serrano, che scoprì nel 1862 la prima testa monumentale olmeca in un terreno paludoso nella regione del Veracruz. Il colosso - che pesava 20 tonnellate - era il primo di 17 teste che vennero ritrovate negli anni seguenti tra La Venta e San Lorenzo. I lineamenti particolari del volto - labbra sporgenti e naso camuso, così estranei alla fisionomia messicana - vennero definiti in un primo tempo “etiopi” e molte congetture fantasiose si fecero circa lontani viaggiatori africani o superstiti di Atlantide che sarebbero approdati sulle coste del Messico in periodo pre-ispanico. Nel corso degli anni vennero alla luce numerosi oggetti, stele, statue e utensili chiaramente appartenenti ad una popolazione omogenea e gli studiosi compresero di trovarsi di fronte ad un evento straordinario: la scoperta di una civiltà finora sconosciuta, forse più antica dei Maya, che doveva sconvolgere tutti i dati e le conoscenze sui popoli mesoamericani fino ad allora accumulate. La Venta venne scoperta nel 1925 dall’archeologo statunitense Frans Blom e dall’etnografo Oliver La Farge, ma il vero pioniere dell’archeologia olmeca fu Matthew W. Stirling che negli anni Quaranta e Cinquanta realizzò numerosi scavi a La Venta, Tres Zapotes, Cerro de Las Mesas e San Lorenzo. Oltre ad una miriade di preziosi e sofisticati reperti egli scoprì che gli Olmechi possedevano un tipo di scrittura (decifrata soltanto parzialmente) e che conoscevano il cosiddetto “conto lungo”, un sistema di contabilità e di datazione tramite glifi e segni numerici, un metodo in seguito adottato e perfezionato dai Maya. [22132] Il giaguaro antropomorfo è un elemento fondamentale nell’ideologia olmeca: rappresenta la terra e le forze telluriche ed è legato al rito della nascita, in quanto gli Olmechi credevano che il loro mitico progenitore fosse nato dal congiungimento di un giaguaro con un essere umano. L’immagine del giaguaro appare nei volti dei cosiddetti “jaguar-babies”, bambini-giaguari dal cranio deforme, con occhi obliqui, una fenditura sagittale sulla fronte ed i denti spezzati in modo da simulare delle zanne appuntite. Inoltre si trovano stilizzazioni di felini, di fauci, zanne e artigli sugli altari, sui troni e sul vasellame. [22131] Il giaguaro faceva parte della fauna locale ed era un animale temuto e allo stesso tempo venerato. Un antico mito racconta che “tutto il cielo era un immenso giaguaro e le stelle erano le macchie del suo manto che illuminavano la notte”. Presso le popolazioni dell’altopiano centrale, il giaguaro era chiamato “ozelotl” ed aveva il suo posto nel calendario, simboleggiando uno dei giorni. Il mito racconta che, durante il Ciclo del Primo Sole, gli esseri umani venivano divorati dai giaguari e così ebbe termine questo periodo, chiamato dagli Aztechi “nahui ozelotl”. [2221] Vista l’impossibilità di salvare La Venta nel suo ambiente naturale, il poeta messicano Carlos Pellicer, appassionato di archeologia, intraprese tra il 1957 e il 1958 un lavoro straordinario, organizzando il trasferimento dei monumenti olmechi dal sito originario ad un grande parco cittadino, affacciato sulla “Laguna de las ilusiones” di Villahermosa e allestito con piante e animali a imitazione di una vera foresta tropicale. [22211] Nell’arte olmeca prevale la figura umana, anche quando si tratta di illustrare un contesto mitologico: lo dimostrano le sculture degli “altari” monolitici (che in realtà sarebbero dei “troni”), le cui facciate sono costituite da una grande bocca di giaguaro stilizzata che forma una grotta dalla quale emergono figure maschili. Questa immagine ha molteplici significati: la caverna simboleggia il buio ventre della terra dal quale nascono gli uomini, le piante e gli animali, mentre le fauci del giaguaro sono legate al mito d’origine della stirpe che secondo la genesi olmeca sarebbe stata generata dall’unione mistica tra un giaguaro e una donna. Misterioso è il significato delle scene raffigurate sugli “altari”, poiché i riti religiosi degli Olmechi ci sono rimasti oscuri: le sculture del primo “altare” ci mostrano un uomo seduto a gambe incrociate che sporge tra le zanne di un giaguaro ed afferra una fune - interpretata da alcuni studiosi come il cordone ombelicale - collegata ad un fanciullo scolpito sulla parete laterale; nel secondo “altare” la figura maschile, che sembra emergere dal limbo, tiene tra le braccia un neonato inerte in contrapposizione ai personaggi raffigurati sul lato che sorreggono con evidente disagio dei bambini scomposti e vivaci. [22221] Labbra tumide dall’espressione altezzosa, naso largo e schiacciato, occhi a mandorla, fronte aggrottata sotto un casco aderente al cranio: sono questi i principali elementi che caratterizzano le teste colossali degli Olmechi, alte tra 1,47 e 3,40 metri e pesanti da 6 a 50 tonnellate. Queste sculture, eseguite tra il 1200 e il 900 a.C., sono esclusive della cultura olmeca e non hanno riscontro in nessun’altra civiltà mesoamericana. Le teste sono scolpite in un unico, immenso blocco di basalto, un materiale introvabile nelle immediate vicinanze degli insediamenti degli Olmechi, i quale dovevano percorrere lunghe distanze - 100 chilometri ed oltre - per procurarsi i pesanti massi di roccia. Si è calcolato che alle operazioni di distacco e di trasporto delle enormi pietre su tronchi d’albero e zattere partecipassero fino a 1000 persone. Sul significato delle teste giganti, che per ragioni oscure vennero abbattute e parzialmente mutilate dagli stessi Olmechi alla fine del X sec.a.C., si è discusso molto: forse erano ritratti allegorici di una dinastia di sovrani, oppure rappresentavano personaggi legati al gioco rituale della palla, di cui sono stati inventori gli Olmechi grazie alla conoscenza del caucciù. [22231] Gli Olmechi erano celebri per la lavorazione della giada, dell’ossidiana e della pietra, tutti materiali che dovevano procurarsi in terre lontane. A La Venta è stato rinvenuto un prezioso gruppo di “offerenti” in giadite levigata che potrebbe rappresentare un antico rituale. Altri doni votivi vennero trovati sotto una tomba composta da un recinto di colonne di basalto, una struttura che somiglia alla palizzata raffigurata nel gruppo degli “offerenti”. Esistevano inoltre delle fosse con “offerte massive” che consistevano in un deposito di migliaia di lastre di serpentina, materiale da sempre considerato più prezioso dell’oro dalle antiche popolazioni del Messico. Le fosse erano coperte da una piattaforma di blocchi di pietra verde composti a mosaico che formavano il volto di un giaguaro stilizzato, a sua volta seppellito sotto uno strato di terra. [231] Negli antichi libri del “Chilam Balam”, che contengono le cronache e le profezie delle popolazioni maya dello Yucatán, Uxmal (che significa letteralmente “costruita tre volte”) viene menzionata più volte come una città fiorente, capoluogo delle terre collinose di Puuc, nome con il quale viene definito il particolare stile architettonico di quella regione. La città venne fondata all’inizio del periodo denominato Classico Tardo, intorno al VII sec.d.C., e rimase a lungo uno dei centri cerimoniali più importanti dello Yucatán. All’epoca del cosiddetto “collasso Maya”, nel X - XI secolo, quando le città attraversarono una profonda crisi, anche Uxmal subì l’invasione di gruppi stranieri, penetrati dalle regioni del Golfo, e venne occupata dalla dinastia degli Xiú, una popolazione di lontana origine maya che introdusse nuove politiche e culti. [2311] L’opera architettonica più maestosa di Uxmal è la “Piramide dell’Indovino”, un edificio di forma semi-ellittica, alto 35 metri e costruito in stile “Puuc-chenes”. Si possono riconoscere cinque fasi di costruzioni sovrapposte, ad iniziare dal periodo classico fino all’epoca dell’occupazione degli Xiú che nell’anno 1000 d.C. aggiunsero un Tempio sulla sommità. Secondo la leggenda, invece, la Piramide venne eretta in una sola notte da un nano - personaggio magico per le culture mesoamericane - con l’aiuto della madre, una donna dotata di poteri sovrannaturali. Alla base della facciata principale, rivolta al tramonto, si trova il tempio più antico della piramide che reca nell’architrave un’iscrizione con la data 569 d.C. ed è decorato con numerose maschere di Chaac, il “Dio dal naso lungo”, legato al culto dell’acqua e della pioggia. Nel Tempio venne scoperta la cosiddetta “regina di Uxmal”, una scultura che raffigura il volto tatuato a scaglie di un sacerdote che emerge dalla bocca di un serpente. [2321] L’immenso cortile di fronte alla Piramide dell’Indovino è chiuso sui quattro lati dagli splendidi edifici del “Quadrato delle Monache”, chiamato così dagli Spagnoli per la presenza di numerose celle di tipo conventuale e per le decorazioni a grata che caratterizzano, insieme alle maschere di Chaac, lo stile “Puuc”. In verità le grate simboleggiavano delle stuoie, riservate alla classe dominante i cui rappresentanti erano chiamati anche i “signori delle stuoie”. I palazzi sono costituiti da lunghi edifici con numerose porte aperte sulla corte interna. Il piano superiore è ornato con una profusione di intrecci geometrici come losanghe, greche e trapezi e da elementi figurativi come capanne stilizzate, maschere sovrapposte, serpenti a due teste e nicchie che contenevano delle sculture a tutto tondo come testimonia l’unica superstite che raffigura un Bacab, una delle divinità che sostenevano i quattro angoli della terra. Il “Quadrato delle Monache“ è un eccellente esempio per poter apprezzare l’altissimo livello raggiunto dagli intagliatori maya nell’arte della lavorazione della pietra. Il complesso venne realizzato intorno al X secolo secondo la visione dell’universo maya: gli edifici sono orientati verso i quattro punti cardinali con al centro una colonna di pietra che simboleggia la “ceiba”, l’Albero Cosmico. [2331] In posizione elevata, sopra una vasta piattaforma con un’ampia gradinata, sorge un edificio lungo quasi 100 metri, chiamato “Palazzo del Governatore” nel quale viveva la massima autorità di Uxmal, forse il “Signore Chaac”, che si è voluto identificare con la figura ornata da piume di “quetzal” scolpita sopra il portale centrale. L’edificio - orientato verso il sorgere del pianeta Venere, al quale è dedicato anche l’”Altare del Giaguaro a due teste” posto di fronte al Palazzo - costituisce una delle architetture più belle e perfette di tutta la Mesoamerica. La parte inferiore della facciata è semplice e lineare, mentre il cornicione superiore è fittamente decorato in stile “Puuc”, con i simboli cari alla cultura maya: sul fregio si possono contare 260 maschere del dio Chaac, tante quanti sono i giorni del calendario dell’anno sacro. La parte posteriore del Palazzo è caratterizzata da una serie di strette porte con un arco a forma di punta di freccia che danno accesso a dei piccoli vani il cui uso è rimasto sconosciuto. [2341] Per lungo tempo, sia nel periodo strettamente maya che sotto il dominio della dinastia Xiú, Uxmal è stata tra le città più popolose e fiorenti dello Yucatán, grazie anche alla costruzione di numerosi “chultunes”, grandi cisterne che assicuravano una duratura riserva d’acqua in un luogo privo di pozzi naturali. Tra gli edifici monumentali gli archeologi hanno individuato e scavato un Campo per il Gioco della Pelota nel quale sono stati trovati tre anelli di pietra che recano incisa la data dell’anno 649 d.C.. Vi sono inoltre la Grande Piramide, la superstite facciata del Quadrilatero del “Palomar” e numerosi palazzi, templi e complessi abitativi, in parte ancora nascosti sotto la vegetazione. Leggermente distaccato rispetto all’asse centrale tra il “Quadrato delle Monache” e la Grande Piramide si trova il cosiddetto “Gruppo del Cimitero”, un tempio con un vasto recinto che contiene quattro piattaforme ornate da teschi: più che di un cimitero potrebbe trattarsi di un’area sacrificale di epoca Xiú. [2352] Nel pantheon delle divinità maya Chaac (o Chac) è il Dio del Mais, associato all’acqua, alla pioggia, ai fiumi e all’energia vitale. Chaac è una delle molteplici divinità antropomorfe che derivano dai draghi e dai serpenti ed appare nell’iconografia come un essere mostruoso con zanne, occhi spiraliformi e un naso ricurvo a forma di proboscide (ed è per questo chiamato anche il “Dio dal naso lungo”). Talvolta regge tra le mani una torcia, simbolo di siccità, oppure un’ascia che simboleggia il fulmine. [2351] A Chaac erano associati animali acquatici come tartarughe e rane, e per scongiurare le carestie gli venivano offerti sacrifici di sangue. Con l’arrivo dei Toltechi e delle popolazioni straniere provenienti dal Golfo, Chaac viene assimilato a Tlaloc, il Dio della Pioggia degli altipiani centrali. Al Dio era dedicata la festa della “Somministrazione del blu” (che si svolgeva nel mese di Mol, l’VIII del calendario maya) durante la quale tutti gli oggetti di uso quotidiano e le porte venivano dipinti di blu - il colore di Chaac - per allontanare gli spiriti maligni. Era uso “bacchettare” per nove volte le mani dei giovani per farli diventare dei bravi artigiani. Sempre a Chaac era dedicata la festa di Ocná (“entrare in casa”) nel mese di Yax (il X del calendario maya) quando venivano consultati gli oracoli per sapere quale fosse il periodo propizio per restaurare i templi del Dio. [2362] All’arrivo degli Spagnoli Uxmal era ancora abitata, anche se gli Xiú, coinvolti in violenti combattimenti con i Conquistadores tra il 1527 e il 1531, avevano trasferito da tempo la capitale a Mayapan. Le prime descrizioni del luogo sono contenute nei diari dei frati Alonso de Ponce, Diego Lopez de Cogolludo e Antonio de Ciudad Real. Poi su Uxmal scende il silenzio. [2361] All’arrivo degli Spagnoli Uxmal era ancora abitata, anche se gli Xiú, coinvolti in violenti combattimenti con i Conquistadores tra il 1527 e il 1531, avevano trasferito da tempo la capitale a Mayapan. Le prime descrizioni del luogo sono contenute nei diari dei frati Alonso de Ponce, Diego Lopez de Cogolludo e Antonio de Ciudad Real. Poi su Uxmal scende il silenzio. Nella prima metà dell’Ottocento giungono sul posto l’esploratore-scrittore americano John Lloyd Stephens e l’architetto inglese Frederick Catherwood, appassionati entrambi di storia maya. Facendosi strada con il machete attraverso la fitta vegetazione della foresta tropicale riescono a raggiungere Uxmal in due periodi diversi, annotando e disegnando ogni singolo edificio. Leggendo i loro resoconti ci si rende conto delle immense difficoltà che gli archeologi dovevano incontrare durante gli scavi nella giungla. Nel suo diario di viaggio “Incidents of Travel in Yucatán” Stephens racconta: “Uscendo dalla selva si aprì davanti a noi un vasto campo sul quale sorge, grandioso e maestoso, l’”Edificio del Nano” (poi chiamato “Piramide dell’Indovino”) che già avevamo visto in precedenza, ma durante l’anno della nostra assenza la natura aveva operato tanti cambiamenti. Le pareti dell’elevata struttura che avevamo vista spoglia e nuda erano coperte ora da cespugli, erba e gramigna, e sulla cima crescevano arbusti e alberi alti circa sei metri. L’”Edificio delle Monache” era soffocato dal terriccio e il campo coperto da erbacce che arrivavano ad altezza d’uomo ed impedivano la vista mentre l’attraversavamo. Le fondamenta, i terrazzamenti e i tetti degli edifici erano coperti da piante rampicanti che spaccavano le pietre della facciata, ed i monticoli, le pedane e tutte le rovine erano un ammasso di vegetazione distruttiva. La forte e vigorosa natura aveva preso il predominio sull’arte, stringendo la città in un abbraccio mortale, dandole sepoltura sul luogo.” [241] Nella Valle di Oaxaca, su uno sperone roccioso a duemila metri di altitudine, nasce nella seconda metà del I Millennio a.C. un sito spettacolare, Monte Albán, città sacra agli Zapotechi, una civiltà raffinata e sofisticata che per lunghi secoli ha dominato le aspre terre delle sierre meridionali. Il centro cerimoniale venne costruito sul modello di Teotihuacán - città nella quale gli Zapotechi avevano fondato un proprio quartiere - ma vi si svilupparono delle architetture e dei culti propri non privi di influenze olmeche e maya. Nell’XI sec.d.C. giunsero nella regione i Mixtechi che raccolsero l’eredità zapoteca e diventarono maestri nell’arte della gioielleria e della scultura. [2411] Il complesso cultuale emerge come una nave di pietra dalla vallata, circondata all’orizzonte da alte montagne: sui lati estremi, a nord e a sud, del vasto piazzale si ergono due strutture piramidali con ripide gradinate che sovrastano templi, altari, palazzi e un ampio campo per il gioco della Pelota, costruiti al centro dell’area e lungo il ciglio est ed ovest del promontorio. Le piramidi furono costruite secondo la tecnica del “talud-tablero”, con pareti oblique intervallate da ripide pareti incorniciate da lastroni, ed erano coperte di stucco dipinto e adorne di rilievi e sculture. Dei templi che coronavano la sommità delle piramidi, riservate esclusivamente ai sacerdoti, non è rimasta traccia. Presso la piattaforma meridionale sono state trovate numerose stele con immagini di giaguaro e di Cocijo, Dio della Pioggia, mentre nella piattaforma settentrionale si vedono ancora resti di colonne - un elemento raro nell’architettura delle antichissime culture mesoamericane - e due camere sepolcrali. Una rampa dava accesso al cosiddetto “patio hundido”, una corte infossata tra due piattaforme con al centro un altare: un sistema cultuale che troviamo soltanto in ambiente zapoteco. Un mistero circonda l’“osservatorio” che gli archeologi chiamano “Montículo J” (a Monte Albán tutte le strutture sono indicate da lettere poiché al momento dello scavo spesso si ignorava la funzione degli edifici) e che risale al III sec.d.C.: spostato di 45 gradi rispetto al nord, è stato costruito a forma di punta di freccia con un corridoio interno e ricoperto di lastre, di cui alcune recano graffiti e rilievi geometrici e figurativi. Per la sua particolare ubicazione rispetto alla rigida composizione nord-sud dell’area sacra, si pensa che l’edificio fosse legato alle osservazioni astronomiche. [2421] Il centro cerimoniale ed i palazzi costruiti sul ciglio del promontorio erano frequentati esclusivamente dai sacerdoti e dai nobili della teocratica società zapoteca. Di particolare importanza doveva essere l’edificio dei “Danzantes” che risale al periodo di Monte Albán III (300-700 d.C. circa) e che venne chiamato così per la presenza di numerose lastre istoriate con personaggi nudi che eseguono movimenti di danza. Le figure ricordano nei tratti la fisionomia olmeca in quanto hanno gli occhi obliqui e chiusi, le labbra carnose, il cranio deformato e diverse avevano subìto la mutilazione dei genitali. La loro identità e funzione è oscura: forse si trattava di prigionieri destinati al sacrificio oppure di eruditi locali legati a riti oracolari. Le stele dei “Danzantes” sono più di trecento e almeno un terzo delle lastre vennero riutilizzate nei periodi successivi come materiale di costruzione. Intorno alle figure compaiono glifi e pittogrammi, nomi e cifre, che testimoniano le antichissime origini del sistema vigesimale usato nel mondo preispanico. [2431] Nel centro cerimoniale e lungo le pendici del promontorio di Monte Albán sono state scoperte circa 200 tombe, di cui alcune ancora inviolate, colme di ricchi corredi funerari. Il sepolcro zapoteco è costituito da un ipogeo - talvolta a forma di croce - con tre ambienti rivestiti da lastre di pietra ricoperte di stucco e affrescate. Molte tombe venivano scavate sotto il patio dei palazzi ed erano riservate ad uno o più membri della stessa famiglia. All’epoca del declino della cultura zapoteca, intorno al X secolo, giunsero qui i Mixtechi, un popolo guerriero con grandi capacità artistiche e artigiane e la fusione tra l’arte zapoteca e quella mixteca fu in grado di creare delle opere splendide. Monte Albán, pur decaduta come capitale politica e amministrativa, continuò a mantenere il suo ruolo di centro religioso e molte tombe vennero riutilizzate dai nobili mixtechi. [2441] La scoperta della Tomba 7 e del suo tesoro costituisce uno degli avvenimenti più clamorosi della storia archeologica messicana. Nel gennaio del 1932 il grande archeologo Alfonso Caso e il suo assistente Ignacio Bernal riescono ad individuare la prima tomba pre-ispanica sfuggita nei secoli ai saccheggiatori e ai predatori, nascosta sotto il pavimento di una residenza nobile all’esterno del centro cerimoniale. “Ad illuminare la terra della tomba vi erano perle, grandi quantità d’oro e innumerevoli scaglie di turchese che formavano un meraviglioso mosaico” ricorda Alfonso Caso nelle sue memorie. La tomba risale al periodo zapoteco classico, ma il ricco corredo funerario appartiene per la maggior parte all’epoca mixteca. Il tesoro è composto da perle, coralli, cristalli di rocca e ambra in grande quantità, da gioielli finemente cesellati in oro, argento e rame, da oggetti di giada, ossidiana e avorio e da un cranio umano rivestito da tessere di turchese e madreperla. La lavorazione dei gioielli con la tecnica della filigrana e l’incrostazione di turchese è l’arte nella quale i Mixtechi furono maestri indiscussi e le loro opere erano ammirate e ambite da tutti i popoli della Mesoamerica. [2451] I periodi storici di Monte Albán sono suddivisi in cinque fasi: Monte Albán I risale al VI-III sec.a.C. quando si forma il primo insediamento a carattere urbano che rispecchia alcune influenze della civiltà olmeca. Monte Albán II si forma tra la fine del III sec.a.C. e il II sec.d.C. quando nasce il grandioso impianto del centro cerimoniale con templi e palazzi. Fiorente emporio commerciale, Monte Albán attira un gran numero di persone e presto la città conta più di 10.000 abitanti. In quell’epoca viene perfezionato un calendario di 260 giorni e si sviluppa la scrittura con glifi e pittogrammi. Monte Albán III rappresenta l’apogeo della città tra il IV e l’VIII sec.d.C.. Vengono ristrutturate le piramidi ed i templi che rispecchiano l’influenza della cultura di Teotihuacán, città con la quale gli Zapotechi intrattenevano ottimi rapporti. L’attività artistica è al culmine e risalgono a quest’epoca i sepolcri ipogei riccamente ornati da pitture. Monte Albán IV vede tra il IX e il XII sec.d.C. i primi segni di declino della società teocratica zapoteca. La regione di Oaxaca è frammentata in tanti piccoli feudi e gran parte del potere è ormai nelle mani dei Mixtechi. Monte Albán riesce tuttavia a conservare il suo ruolo di centro religioso. Monte Albán V segna l’ultima fase della città dal XIII secolo fino all’arrivo degli Spagnoli. La pacifica convivenza tra Mixtechi e Zapotechi viene interrotta dall’invasione degli Aztechi che gravano la regione di pesanti tributi. Nel 1521 Monte Albán viene occupata dai Conquistadores. [2462] Del nome originario di Monte Albán - chiamata così dagli Spagnoli perché spesso nuvole bianche la nascondevano alla vista - si è persa la memoria. All’epoca dell’occupazione spagnola, dopo essere stata depredata di quasi tutti i suoi tesori, la città ed il suo centro cerimoniale cessarono definitivamente di esistere, anche perché i Conquistadores avevano fondato a valle un nuovo insediamento chiamato prima Antequera e poi Oaxaca. [2461] Nell’Ottocento giunsero sul luogo alcuni viaggiatori e architetti spagnoli e tedeschi che esplorarono la Valle di Oaxaca e disegnarono le poche rovine superstiti. Nel 1902 l’archeologo dilettante Leopoldo Batres scoprì alcune stele dei “Danzantes” che vennero smantellate e portate a Città del Messico. La grande svolta arrivò con l’archeologo messicano Alfonso Caso, il quale, insieme a Ignacio Bernal e a Jorge Acosta, iniziò i primi scavi scientifici a partire dal 1927. In lunghi anni di lavoro Caso fece riemergere il monumentale centro cerimoniale con i palazzi, le piramidi, i templi e i primi sepolcri di Monte Albán, e nel 1932 scoprì il favoloso Tesoro della Tomba 7. A tutt’oggi non si è terminato di esplorare la vastissima area archeologica ed ogni nuova scoperta aiuta a conoscere sempre meglio la complessa storia degli Zapotechi e dei Mixtechi. [251] Splendida doveva apparire Palenque sullo sfondo verde cupo della foresta con i suoi monumenti dipinti di rosso all’epoca in cui gli antichi Maya adoravano le loro divinità e onoravano il proprio re come un dio. Anche se oggi i colori sono svaniti e della vita dei suoi abitanti non restano che flebili eco, la città ha mantenuto il suo fascino e basta addentrarsi di pochi metri nella lussureggiante vegetazione che la circonda per ritrovarsi in un mondo mai dimenticato. [2511] Nelle “terre calde” dove si incontrano la piana del Campeche e gli altipiani del Chiapas, e dove la foresta tropicale domina sovrana, sorge la città di Palenque, sublime esempio di architettura maya di epoca Classica, paragonabile solo a Tikal in Guatemala e a Copán in Honduras. Sebbene il sito fosse già occupato nel I sec.a.C., la città conosce il suo massimo splendore nel VII sec.d.C., quando il regno è guidato dal sovrano Kin Pacal (615 - 683 d.C.) e poi da suo figlio Chan Bahlum (683 - 702 d.C.). Quello che oggi vediamo di Palenque - il cui antico nome era probabilmente “Otulum” (“case fortificate”) e che venne ribattezzata in seguito dagli Spagnoli - non è che una minima parte di una città che si estendeva per ben 15 chilometri quadrati. Gli edifici più importanti, come il Gruppo della Croce, il Tempio delle Iscrizioni e il Palazzo, sono tutti databili ad un periodo che va dall’inizio del VII secolo alla metà dell’VIII secolo, quando Palenque e i suoi sovrani dominavano un vasto territorio. Già nell’VIII secolo la città subisce una sempre più forte influenza da parte di Toniná, un sito maya distante un’ottantina di chilometri, ma la definitiva decadenza e il successivo abbandono avvengono soltanto nel X secolo, probabilmente a causa dell’arrivo di nuove popolazioni provenienti dal Golfo del Messico. Gran parte della sua storia Palenque la porta scritta su i suoi monumenti sotto forma di rilievi o di glifi e l’universo maya si esprime attraverso le sue architetture: il mondo dei mortali è rappresentato dal Palazzo e il mondo degli Dei dai Templi del Gruppo della Croce, mentre il Tempio delle Iscrizioni è il luogo dove l’uomo si fa Dio. [2521] Dalla cima della piramide del Tempio delle Iscrizioni il mondo sottostante appare lontano: l’immensa gradinata sparisce e lo sguardo spazia sull’antico territorio di Palenque, dove domina la foresta tropicale, i cui rami più alti talvolta si aprono per far emergere le cime di altre piramidi. Il cielo sembra vicino e i sacerdoti maya si sentivano sicuramente a stretto contatto con le divinità che lo abitavano. Il Tempio delle Iscrizioni non è soltanto un luogo sacro, ma la testimonianza in pietra della dinastia più potente di Palenque. I pilastri della facciata sono decorati con stucchi che mostrano il re Pacal insieme al Dio K, una divinità legata alla classe regnante. In origine i rilievi erano dipinti e i colori non venivano scelti a caso, ma avevano un significato ben preciso: il rosso serviva per dipingere il corpo umano e le parti umane delle figure antropomorfe ed era quindi il colore del mondo degli uomini; il giallo veniva usato per le immagini dei giaguari, delle piante acquatiche e dei serpenti, tutti simboli dell’Inframondo; il blu era invece il colore del Cielo e in questa tonalità erano rappresentati gli Dei e gli attributi divini del re. Sulle pareti interne del Tempio sono scolpiti più di 600 glifi che illustrano quasi 150 anni di storia della città. Grazie a queste immagini l’epigrafista tedesco Heinrich Berlin riuscì nel 1958 a individuare i cosiddetti “glifi emblematici” (glifi che indicano nomi di sovrani o di città come i “cartigli” degli antichi egizi) che fecero fare un grande passo avanti per la decifrazione della scrittura maya. Negli anni Cinquanta la Piramide delle Iscrizioni svelò un altro segreto: nelle sue viscere era sepolto un grande sovrano, forse quel Kin Pacal che aveva regnato su Palenque per settant’anni e che qui riposava assieme al suo tesoro di giada. La scoperta, fatta dall’archeologo Alberto Ruz Lhiullier, fu fondamentale per la conoscenza del mondo maya, poiché fino ad allora si era creduto che le piramidi fossero solamente edifici per il culto e non anche monumenti funebri. [2531] Davanti al Palazzo, sulla riva opposta del fiume che attraversava la città, sorge un gruppo omogeneo di tre templi: il Tempio della Croce, quello della Croce Fogliata e il Tempio del Sole. Questo gruppo fu fatto erigere dal re Chan Bahlum (o Chan Balám - “Serpente Giaguaro”), figlio del potente sovrano Pacal, per celebrare la sua ascesa al trono nel 683 d.C.. La struttura è simile per tutti e tre i templi: su una piattaforma artificiale o naturale si eleva un edificio a pianta rettangolare sul cui tetto si alza una cresta, in origine ornata con figure di stucco. Coperti da decorazioni erano anche gli spioventi del tetto e i pilastri che scandiscono la facciata. L’interno è diviso in tre stanze e quella centrale custodisce un piccolo santuario con pannelli a rilievo. Il Tempio della Croce, il primo probabilmente ad essere stato costruito, venne chiamato così perché il grande pannello interno mostra un Albero della Vita (la “ceiba” che affonda le radici nell’Inframondo, attraversa il mondo degli uomini con il suo tronco e arriva al Cielo con i suoi rami) che agli occhi dei primi scopritori apparve come un Croce. Ai lati dell’Albero si vede il re Pacal che trasmette al figlio i simboli del potere. Nel rilievo del Tempio della Croce Fogliata l’Albero della Vita è ornato da pannocchie di mais, un simbolo di fertilità rafforzato dall’immagine di Chan Bahlum che si appresta a compiere un autosacrificio. Il Tempio del Sole mostra invece dei giaguari e si pensa quindi che fosse dedicato ai sacrifici e alla guerra. Ai tre Templi erano associate altrettante divinità di cui non si conoscono i nomi e perciò chiamate “G I”, “G II” e “G III” o “Triade di Palenque”. Ricordati anche nel libro sacro “Popol Vuh”, sono Dei che rappresentano i diversi aspetti del Sole e che venivano considerati dai Maya i progenitori delle stirpi reali. [2541] Al centro della città, su una piattaforma alta 10 metri, venne eretto il cosiddetto “Palazzo”. In realtà si tratta di più edifici che si addossano l’uno all’altro e che furono costruiti in un arco di 120 anni. La struttura più antica, attorno alla quale si sono sviluppate le successive, sarebbe databile al 600 d.C. circa, anni in cui Palenque era governata dalla regina Zak Kuk, madre di Pacal. Tutti gli edifici si aprono su delle corti interne e sono decorati con scene di incoronazione o di imprese dei sovrani e ciò fa pensare che l’intero complesso fosse usato come residenza per la classe dirigente o comunque come centro amministrativo del potere. Come in quasi tutte le città maya, le costruzioni di Palenque erano coperte da uno strato di stucco rosso, su cui spiccavano i rilievi dipinti in colori sgargianti, come giallo, verde e blu. I bassorilievi e gli stucchi del Palazzo sono di incredibile finezza stilistica e i personaggi sono ritratti realisticamente, come nella scena in cui Pacal riceve le insegne reali dalla regina-madre. Come simbolo del potere e della forza di Palenque appaiono numerose rappresentazioni di schiavi, talvolta anche di alto rango a giudicare dalle vesti sfarzose. [2552] Quando, nel 1949, l’archeologo Alberto Ruz Lhiullier - di famiglia franco-cubana, ma messicano d’adozione - mise in luce una botola nel pavimento del Tempio delle Iscrizioni di Palenque, non aveva la minima idea di aver fatto una delle più grandi scoperte sulla civiltà maya. Le successive campagne di scavo furono dedicate allo sgombero dei materiali (terra, pietre e calce) che ostruivano una scala che scendeva sotto la misteriosa apertura e arrivava ad un livello più basso del basamento della piramide. [2551] Finalmente nel 1952 Alberto Ruz aprì la porta che si trovava ai piedi della gradinata: “Entrai nella misteriosa camera” - racconta l’archeologo - “con la strana sensazione di essere il primo che calpestava quella soglia dopo mille anni. Cercai di guardarla con gli stessi occhi con cui la videro i sacerdoti di Palenque, quando lasciarono la cripta: volevo cancellare i secoli e ascoltare le vibrazioni delle ultime voci umane; mi sforzavo di capire il messaggio che gli antichi avevano lasciato inviolato per noi”. Ormai non c’erano più dubbi: davanti agli esploratori si trovava l’ultima dimora di un importante personaggio maya. Le pareti della camera sepolcrale erano decorate con nove figure, forse antenati o divinità dell’Inframondo, mentre al centro del pavimento si trovava un massiccio sarcofago di calcare. La lastra che chiudeva la sepoltura era istoriata da un bassorilievo che mostra il re tra le fauci del Mostro Terrestre (un’allegoria della discesa nell’aldilà), mentre sopra di lui svetta l’Albero della Vita, sulla cui sommità sta appollaiato Itzamná, il Dio Supremo nelle vesti di un ibrido metà uccello e metà serpente. Sollevato il coperchio, Ruz potè guardare infine in viso l’antico sovrano: “La prima impressione fu quella di contemplare un mosaico verde, rosso e bianco. Poi il mosaico si scompose in dettagli: ornamenti di verde giada, ossa e denti dipinti di rosso e frammenti di una maschera”. Il corredo funerario era ricchissimo: una maschera, un diadema, orecchini, una collana, un pettorale, bracciali, anelli e statuine tutti in giada, nonché preziose teste a tutto tondo in stucco, forse ritratti del sovrano stesso. Sebbene molti studiosi abbiamo identificato il defunto con il re Kin Pacal (“Scudo Solare”, dal glifo che lo rappresenta), Alberto Ruz non fu mai d’accordo con questa interpretazione e a tutt’oggi non c’è ancora una spiegazione definitiva. [2561] Quando il capitano d’artiglieria Antonio del Río scoprì Palenque nel 1785, la città era ormai disabitata da più di 700 anni. Del Río esplorò con metodi “militari” e ben poco scientifici e scrisse una relazione per il re di Spagna Carlo III di Borbone, che rimase inedita fino al 1822. Questo rapporto, pubblicato poi a Londra, suscitò l’interesse del sedicente conte cecoslovacco Jean-Frédéric Waldeck, un uomo dalla personalità eccentrica che aveva partecipato alle campagne d’Egitto napoleoniche. Waldeck visse a Palenque dal 1831 al 1833, occupando come residenza un tempio in rovina che da allora venne chiamato “Templo del Conde”. I suoi disegni, seppur di notevole effetto, non erano ricostruzioni fedeli dei rilievi e dei glifi che apparivano sui monumenti della città, ma interpretazioni fantasiose che agli autentici elementi maya univano immagini desunte dai mondi egizio, greco, mesopotamico e indiano. A Palenque, intorno al 1840, soggiornarono anche John Lloyd Stephens e Frederick Catherwood, gli esploratori che con i loro racconti e disegni fecero conoscere le rovine degli antichi Maya in tutto il mondo. Da allora molti studiosi si sono sperimentati a Palenque, ma i primi veri scavi scientifici furono condotti negli anni Trenta dall’archeologo Miguel Angel Fernandez e quindi, dal 1949 al 1958, da Alberto Ruz Lhuillier. A Ruz dobbiamo la sistemazione ed il restauro di quasi tutto il sito di Palenque e soprattutto la clamorosa scoperta di una tomba all’interno di una piramide maya, la prima di una lunga serie. Infatti dall’inizio degli anni Novanta sono state rinvenute a Palenque più di 10 tombe, tra cui quella della “Regina Rossa”, così chiamata perché la defunta - sicuramente una nobildonna, vista la ricchezza del suo corredo - era completamente coperta dalla polvere [261] I Maya provengono tutti da una radice culturale comune, ma svilupperanno poi espressioni religiose, sociali e artistiche individuali. Nel periodo detto Post-Classico, intorno al X – XII secolo, il mondo maya attraversa una grave crisi e le dinastie sono costrette ad allearsi militarmente con popolazioni di origine straniera come i Toltechi di Tula. Accade così che molte istituzioni politico-sociali vengono sovvertite e ai sovrani-sacerdoti si sostituiscono dei re-guerrieri. Nasce allora una capitale potente e autorevole, Chichén Itzá, orgogliosa metropoli maya-tolteca che dominerà lo Yucatán per circa tre secoli. [2611] Sull’origine delle genti che nel IX secolo occuparono Chichén Itzá, guidate da un capo che prese il nome maya di Kukulkán, si è discusso a lungo. Erano tribù di lontana origine maya tornate dopo varie migrazioni in patria o erano invece Toltechi cacciati da Tula e approdati nello Yucatán dopo un lungo viaggio per mare e per terra? Il loro capo era davvero il mitico sovrano divinizzato Quetzalcóatl, esiliato da Tula? Di certo la capitale Chichén Itzá - il cui nome significa “sul ciglio del pozzo degli Itzá” - venne costruita con un mirabile connubio tra elementi maya e toltechi: il grande piazzale cerimoniale avrebbe rappresentato, secondo il pensiero maya, il mare primordiale della creazione, mentre “El Castillo” sarebbe stato la montagna dove la mitica Prima Madre avrebbe modellato gli uomini nel mais. Su questa struttura maya i Toltechi introdussero i simboli delle loro tradizioni guerresche come il “muro dei crani”, i Chac-mool e le immagini di serpenti, giaguari, aquile e “atlanti”. Con l’arrivo della tribù tolteca degli Itzá la società, in contrasto con l’ideologia maya, si militarizzò profondamente e forse la fine della città, che risale al XIV secolo, è da attribuire alla ribellione delle popolazioni locali contro i dominatori stranieri. [2621] A dominare il centro cerimoniale di Chichén Itzá si erge “El Castillo”, la grande piramide maya-tolteca dedicata al re-eroe Kukulkán. Primo monumento costruito dalla tribù tolteca degli Itzá dopo il loro arrivo alla fine del X secolo, la piramide venne eretta inglobando un più antico edificio sacro maya ed elevando sulla sommità un tempio, al cui interno sono stati trovati un Chac-mool (un altare antropomorfo con un recipiente per le offerte) e un trono a forma di giaguaro, dipinto di rosso e decorato con dischetti di giada per simulare le macchie del manto. Di dimensioni gigantesche, con una base di 55 metri per lato ed un’altezza di 30 metri, “El Castillo” è la celebrazione in pietra del divino Kukulkán-Quetzalcóatl: le quattro scalinate hanno i parapetti ornati da lunghissimi “serpenti piumati” le cui fauci si aprono nel piazzale sottostante, mentre le colonne del tempio sono serpenti a sonagli la cui coda sostiene un architrave. Kukulkán fa la sua apparizione nei giorni degli equinozi (a Marzo e a Settembre) quando l’ombra delle nove terrazze si proietta sul muro nord-ovest creando l’immagine di un serpente che striscia lungo la piramide. L’importanza dei calcoli astronomico-calendariali è ribadita in tutto il monumento: le quattro scalinate che scandiscono la piramide contano ognuna 91 gradini per una somma totale di 364; se vi aggiungiamo l’unico gradino del tempio il conto finale è di 365, l’esatto numero dei giorni di un ciclo solare. Come i raggi del sole, da “El Castillo” partono numerosi “sacbeoob” - le strade maya in terra battuta o pavimentate a seconda dell’importanza - tra cui quello principale che conduce al Cenote Sacro, il grande pozzo dedicato ai sacrifici e alle offerte. [2631] Il gigantesco Campo per il Gioco della Pelota lascia lo spettatore stupefatto: la corte misura circa 170 metri di lunghezza e circa 50 metri di larghezza, mentre i muri laterali - verticali e ornati da una fascia a forma di serpente - sono alti quasi 8 metri e gli anelli sono fissati ad un’altezza di 7 metri e mezzo. Guardando quei bersagli così alti viene spontaneo chiedersi come i giocatori potessero lanciare la pesante palla di caucciù fino a lassù senza usare le mani, colpendola soltanto con i gomiti, le ginocchia ed i fianchi. Nel gioco della pelota di Chichén Itzá si fronteggiavano due squadre formate da sette elementi ciascuna e le loro immagini sono immortalate sui rilievi che corrono lungo la base dei muri: vediamo i giocatori protetti da larghe cinture che coprivano le parti vulnerabili, dalle anche alle ascelle, e da paracolpi sulle braccia e sulle ginocchia, e molte scene mostrano il rituale sacrificio dei perdenti per decapitazione. Sui lati nord e sud il Campo era delimitato da ampie piattaforme con due templi dedicati al Sole e alla Luna, anch’essi coperti interamente da bassorilievi. La grande “Pelota” è uno dei nove campi esistenti a Chichén Itzá ed è il più grande di tutta la Mesoamerica. Addossata al muro esterno si trova una piramide tronca, chiamata “Tempio dei Giaguari”, che nella parte bassa possiede una camera decorata da rilievi nella quale è esposto un trono di pietra a forma di giaguaro. La sala superiore, sorretta da due giganteschi serpenti a sonagli, era adibita a stanza rituale durante i giochi. Poco oltre il Campo della Pelota i Toltechi costruirono la piattaforma dello “Tzompantli” e quella della “Casa delle Aquile”. Sullo “Tzompantli”, o “muro dei crani”, venivano esibiti i teschi dei giocatori sacrificati: i Toltechi avevano introdotto questo rito crudele nel mondo maya, in cui esisteva sí il sacrificio umano, ma non aveva mai raggiunto livelli così ossessivi. L’importanza del sacrificio di sangue nelle società guerriere appare chiaro anche dai rilievi che decorano la “Casa delle Aquile”, dove giaguari e rapaci - entrambi rappresentanti gli ordini militari, nonché rispettivamente simboli del Sole notturno e del Sole diurno - divorano cuori umani. [2641] Perfetta unione tra architettura maya e architettura tolteca è il Tempio dei Guerrieri che sorge su una bassa piramide a quattro livelli che ricorda il “Tempio della Stella del Mattino” di Tula, da cui provenivano i battaglieri Itzá. La gradinata centrale, ornata da teste di serpenti piumati, conduce al Tempio scandito a sua volta da colonne con l’immagine di Kukulkán-Quetzalcóatl. Sui muri esterni dell’edificio le statuine dell’eroe divino sono invece incorniciate da maschere di Chac con il caratteristico lungo naso a proboscide. Dalla sommità della piramide un grande Chac-mool guarda verso il portico sottostante dove più di 40 pilastri sono istoriati con immagini di guerrieri dai pettorali a farfalla, con giaguari e con aquile. Luogo di riunione dei guerrieri Itzá era l’adiacente sala, chiamata delle “Mille Colonne” per la selva di colonne a rocchi di pietra che sostenevano il tetto. La colonna come elemento portante, sconosciuta ai Maya, venne “importata” dai Toltechi che l’avevano già sperimentata a Tula: con questa struttura, su cui poggiavano travi di legno che sostenevano un tetto in pietra, era possibile ampliare a piacimento le dimensioni di un unico ambiente. Purtroppo le intemperie e l’umidità hanno fatto sí che le parti in legno si deteriorassero al punto da non reggere la pesante copertura che già all’arrivo degli Spagnoli giaceva disordinatamente sul suolo. Di fronte alle “Mille Colonne” si trova un altro edificio porticato, detto il “Mercato”, sul cui muro di fondo è rappresentata una processione di guerrieri incorniciata da serpenti piumati. [2651] Una leggenda su Kukulkán-Quetzalcóatl vuole che l’eroe sia asceso al cielo trasformandosi in “Stella del Mattino”, cioè nel pianeta Venere. A Chichén Itzá due piattaforme sono dedicate al Dio in questa veste ed egli vi appare con gli attributi di uccello e di serpente. Le osservazioni astronomiche però avvenivano probabilmente dal “Caracol”, uno dei pochi edifici a pianta circolare del mondo maya e tolteco. Su un doppio basamento dagli angoli smussati venne costruito un edificio in semplici blocchi di pietra levigata scandito da quattro porte, mentre sul tamburo superiore furono applicate delle maschere di Chac in corrispondenza delle aperture. Un ulteriore piano presenta invece delle finestrelle da cui forse si affacciavano i sacerdoti-astronomi per scrutare il cielo. Il nome “Caracol” ricorda la scala “a chiocciola” che, protetta da un muro circolare interno, porta al secondo piano. Qui, senza strumenti se non due assicelle di legno incrociate, i sacerdoti potevano seguire il cammino del Sole e della Luna e studiare esattamente l’arrivo dei solstizi (a Giugno e Dicembre) e degli equinozi (a Marzo e Settembre). La loro perizia nel calcolare lo scorrere del tempo li aveva portati a basarsi su un calendario solare di 365 giorni, con uno scarto infinitesimale su quello stabilito dagli astronomi moderni. In un mondo in cui tutto era permeato dal tocco divino e nessun atto poteva svolgersi senza prima conoscere il parere degli Dei, i sacerdoti-astronomi erano tenuti nella massima considerazione, poiché gli allineamenti degli astri e dei pianeti venivano visti come incontri o scontri tra divinità che in tale modo esprimevano il proprio volere. [2661] Nell’area della cosiddetta “Chichén Vecchia” si sono conservate alcune splendide architetture maya - la “Casa Rossa”, il “Complesso delle Monache”, la “Tomba del Gran Sacerdote” - concepite per la maggior parte nella combinazione degli stili “puuc-chenes”. Il vasto “Complesso delle Monache” - chiamato così dai primi scopritori perché somiglia nella struttura ad un convento ed era creduto residenza dei sacerdoti - venne costruito nel periodo Classico Tardo e decorato sulla facciata principale da intrecci geometrici, mentre gli angoli arrotondati sono formati da maschere sovrapposte di Chac. Gli edifici annessi e la cosiddetta “Iglesia” rappresentano un monumentale omaggio al Dio della Pioggia Chaac, con numerosi mascheroni dalle fauci spalancate e fregi con serpenti stilizzati. Isolata sul portale orientale si trova invece una rara scultura di figura umana incorniciata da un ventaglio di piume. I Toltechi inserirono alcune strutture nel vecchio nucleo maya come ad esempio il Tempio dei Pannelli Dipinti, che recava immagini di guerrieri e giaguari. La Tomba del Gran Sacerdote (detta anche “Ossario”) era probabilmente dedicata al Dio Supremo Itzamná, rappresentato in veste di uccello-serpente che venne assimilato dai Toltechi a Kukulkán-Quetzalcóatl come divinità benefica. La Tomba del Gran Sacerdote consiste in una struttura piramidale costruita sopra un pozzo e nel suo interno sono state rinvenute sette tombe con numerosi scheletri accompagnati da ricche offerte. [2672] La ricchezza dello Yucatán è in parte dovuta ai numerosi pozzi naturali, alimentati dalle sorgenti sotterranee e dall’acqua piovana, che sono chiamati “cenotes”. Gli Spagnoli coniarono la parola “cenote” storpiando quella maya “dzonot” che significa appunto “pozzo”. Le antiche popolazioni usavano anche il termine “chen” ed infatti Chichén Itzá può essere tradotta con “sul ciglio del pozzo degli Itzá”. E proprio qui si trova il più famoso Cenote dello Yucatán. [2671] Oltre che per l’approvvigionamento idrico, i cenotes erano considerati luoghi sacri, dove la vicinanza con il Dio della Pioggia e dell’Acqua si faceva più stretta. Per onorare e ingraziarsi il Dio nei pozzi venivano gettate offerte di ogni tipo, da statue di legno a gioielli di giada, da animali ad esseri umani destinati al sacrificio. A questa cerimonia assistette alla metà del XVI secolo il vescovo Diego de Landa e ne diede un resoconto così atroce - giovani vergini e bambini spinti nel cenote ancora vivi - che ancora nell’Ottocento John Lloyd Stephens guardava con raccapriccio quelle aperture nel terreno: “era come se il genio del silenzio regnasse ancora lì dentro. Un’influenza misteriosa sembrava pervaderlo, a memoria di quando il pozzo di Chichén era meta di pellegrinaggio e le vittime umane vi erano gettate dentro, sacrificate agli Dei”. Dagli inizi del Novecento molti cenotes sono stati esplorati e, sebbene siano stati rinvenuti diversi scheletri umani (molti uomini adulti, pochi bambini e pochissime donne), le scoperte più eclatanti riguardano le offerte in legno, pietre preziose e oro: dal solo Cenote Sacro di Chichén Itzá sono riemersi più di 4000 reperti, tra cui gioielli provenienti dalla lontana Colombia e idoli di sicura fabbricazione olmeca, conservati per secoli per essere infine usati oggetti votivi. Testo originale della citazione di Stephens: “it was still as if the genius of silence reigned within. A mysterious influence seemed to pervade it, in unison with the historical account that the well of Chichén was a place of pilgrimage, and that human victims were thrown into it in sacrifice”. [2682] All’epoca dei Conquistadores, dopo feroci combattimenti tra gli Spagnoli e le tribù indigene degli Itzá e dei Cocomes, il capitano Francisco Montejo) occupò Chichén Itzá nel 1531, ribattezzandola Ciudad Real. Nel 1566 giunse qui il vescovo Diego de Landa, implacabile nell’evangelizzazione forzata dei nativi, ma anche accurato cronista: le sue descrizioni delle città maya servirono a molti archeologi per orientarsi tra le rovine. [2681] La riscoperta di Chichén Itzá risale all’Ottocento, quando numerosi viaggiatori si avventurarono nello Yucatán: gli esploratori Stephens e Catherwood, lo studioso Maudslay, i fotografi Maler, Holmes e Charnay, ai quali dobbiamo le prime immagini realistiche, e l’ “archeologo” francese Le Plongeon, che trovò nel 1875 la prima figura antropomorfa seduta a gambe piegate che regge sul ventre la coppa per i sacrifici e a cui diede il nome di “Chac-mool”. Intorno al 1900 il console statunitense Edward Thompson esplorò per primo il Cenote Sacro, indagato successivamente con metodi scientifici dagli archeologi dell’INAH messicano (Istituto Nazionale di Antropologia e Storia) e della National Geographic Society. A partire dal 1923 operò a Chichén Itzá una missione congiunta statunitense-messicana finanziata dalla Carnegie Institution di Washington. In quel periodo vennero esplorati e restaurati “El Castillo” e l’area di “Chichén Viejo” con al centro il “Caracol”. Nel 1968 i lavori sono proseguiti sotto la direzione dell’antropologo messicano Román Piña Chan, grande studioso di mitologia che ha scritto un saggio fondamentale sulle molteplici versioni del mito di Quetzalcóatl, l’eroe che dalla lontana Tula giunse fino a Chichén Itzá. [31] Quali furono i popoli dell’antico Messico, quale la loro cultura e quali i territori che essi occuparono? Gli storici hanno individuato cinque regioni archeologiche principali: i territori meridionali - lo Yucatán, il Campeche, il Chiapas e il Quintana Roo - abitati dai Maya; le zone costiere del Golfo del Messico dove vissero gli Olmechi, i Totonachi e gli Huastechi; le sierre e le vallate di Oaxaca dove si stabilirono gli Zapotechi ed i Mixtechi; l’altopiano centrale che vide l’evolversi della Cultura di Teotihuacán e che venne poi occupato dai Toltechi, dai Chichimechi e dagli Aztechi; e le terre vulcaniche a ovest dove s’insediarono i Taraschi. Ognuna di quelle civiltà ha lasciato delle testimonianze indelebili sul territorio che oggi possiamo esplorare ed ammirare per comprendere meglio l’evoluzione culturale di un paese immenso come il Messico, con la sua storia millenaria che sembrava doversi interrompere bruscamente alla fatidica data del 1521, quando le truppe di Hernán Cortés distrussero Tenochtitlán. [311] “Più acqua che terra” chiamavano gli antichi le regioni calde del Golfo, tra lo Stato del Veracruz e il Tabasco, ricche di fiumi, paludi e lagune, coperte da una fitta vegetazione tropicale e molto fertili, con piantagioni di cacao, vaniglia, cocco e banane. Terra d’origine degli Olmechi, la “cultura-madre” della Mesoamerica, e abitato poi da Totonachi e Huastechi, il Golfo venne raggiunto in seguito da numerose tribù che dal Messico centrale migrarono verso lo Yucatán. Tra il 1518 e il 1519 vi sbarcarono i primi europei - Juan de Grijalva e Hernán Cortés - ma la loro permanenza fu breve e soltanto nel 1540 il capitano Francisco de Montejo riuscì a sottomettere parte della regione alla Corona Spagnola. [31011] San Lorenzo Tenochtitlán è il più antico insediamento olmeco, abitato fin dal 1500 a.C., e probabilmente la prima città-stato della Mesoamerica, raggiungibile soltanto per via fluviale e sorta in mezzo alle paludi su un’alta piattaforma artificiale per sfuggire alle inondazioni. Del sito non rimangono che poche tracce poiché le costruzioni degli Olmechi erano fatte di argilla, paglia, canne e legno, tutti materiali deperibili che nei secoli sono tornati alla terra e alla natura. Tuttavia San Lorenzo ci ha lasciato delle testimonianze preziose in campo artistico: altari, statue, oggetti di ossidiana e le “teste giganti”, quei misteriosi volti colossali di pietra dall’espressione altezzosa di cui sono stati trovati fino ad oggi 10 esemplari (l’ultima scoperta risale al 1994). San Lorenzo venne abbandonata nel X sec.a.C. ed il potere politico e religioso si spostò a La Venta. La fine della città fu violenta: gli archeologi hanno trovato le stele divelte, gli altari spezzati e le teste rovesciate, forate e scheggiate. Chi si era potuto accanire con una tale furia distruttiva contro la città, e soprattutto perchè? Finora a questa domanda gli storici non sono riusciti a dare una risposta. [31021] Tra acquitrini e campi infiniti di canne si trova il villaggio di Tres Zapotes, un tempo importante centro olmeco che venne scoperto nel 1858, quando, durante i lavori in una fattoria, riemerse dal terreno la prima “testa colossale”, databile intorno al II-I sec.a.C. Tres Zapotes fu uno degli ultimi centri olmechi nati dopo il declino di La Venta nel VII sec.a.C. quando altre popolazioni occuparono la regione. Nel sito antico - che oggi consiste in una piccola area recintata adibita a museo a cielo aperto nel centro del villaggio - l’archeologo Matthew Stirling trovò nel 1939 una stele spezzata (l’altra metà è stata recuperata soltanto nel 1969) che recava l’iscrizione calendariale “7 baktun - 16 katun - 6 tun - 16 uinal - 18 kin”, che secondo il “conto lungo” del sistema maya corrisponde all’anno 31 a.C., la più antica data certa mai rinvenuta. [31031] Dalle vaste pianure meridionali del Golfo emerge un solo massiccio vulcanico, quello di Las Tuxtlas, che circonda il Lago di Catemaco. Siamo ancora in terra olmeca e sugli isolotti in mezzo al Lago sono stati trovati numerosi reperti appartenenti all’“orizzonte olmeco” e a popolazioni autoctone di lingua nahua. Nel territorio di Las Tuxtlas è stata scoperta la cosiddetta “Stele di Mojarra”, una lastra con rilievi che mostra influenze maya ed è databile tra il 143 e il 156 d.C. e che appartiene perciò al periodo della definitiva sparizione degli Olmechi dalle terre del Golfo. La stele mostra l’immagine di un sovrano e reca 577 glifi sulla cui interpretazione gli studiosi sono ancora incerti. Il Lago di Catemaco, pescosissimo e circondato da altissime palme e da tratti di foresta pluviale ancora vergine (famosa per la presenza di “curanderos y brujos”, guaritori e stregoni), è oggi un vasto parco ecologico e luogo di villeggiatura. [31041] Non lontano dalla capitale del Tabasco, Villahermosa, sorge l’area archeologica di Comalcalco risalente alla fine del periodo Classico, tra il 600 e il 900 d.C., e che fu l’avamposto più occidentale dei Maya. Comalcalco possiede delle vestigia grandiose che stilisticamente ricordano Palenque, ma che sono costruite in mattoni, tenuti insieme da malta impastata con conchiglie frantumate. Molti mattoni erano decorati con simboli antropomorfi e geometrici, ma i disegni non erano rivolti verso l’esterno, bensì nascosti nell’interno. Tutti gli edifici erano ricoperti di stucco bianco - si vedono ancora larghe tracce sulle gradinate delle piramidi - dipinto poi in rosso, blu e nero. Vi erano otto templi e una “acropoli”, sulla quale venne edificato - oltre a due templi - un imponente palazzo con gallerie, cortili, opere idrauliche e grondaie a forma di coccodrillo. Sul fianco dell’acropoli è stata scoperta una tomba detta dei “Nove Dei” perché vi sono rappresentati i nove “Signori dell’Inframondo” che i Maya chiamavano “Bolontikú”. Dall’alto dell’acropoli lo sguardo spazia a 360 gradi sull’orizzonte, segnato come una linea netta che divide il cielo dal mare verde della foresta tropicale. [31051] Scorrono lente le acque nel vasto letto del fiume Papaloapan che dette il suo nome alla cultura che vi si sviluppò durante il I millennio d.C., chiamata Papaloapan-Río Blanco. Nella regione furono trovate migliaia di statue e figurine in terracotta di straordinaria fattura ed espressività che raffigurano indifferentemente personaggi femminili e maschili: sacerdoti e sacerdotesse dalle braccia spalancate, vestite con larghe gonne e l’”hiupil”, un indumento indigeno senza cuciture; le inquietanti “Signore della terra”, identificate come rappresentanti della divinità Cihuateotl - associata alle donne morte di parto - che mostrano il torso nudo, la gonna cinta da serpenti e la bocca aperta come in un canto oratorio; ed infine le meravigliose “caritas sonrientes” - i piccoli volti sorridenti - ritratte in uno scoppio di risa irresistibile con la linguetta sporgente tra i denti aguzzi. È difficile credere che queste creature dall’allegria solare fossero legate a riti di morte, poiché erano offerte votive lasciate nei sepolcri. Ma, come dice il grande poeta messicano Octavio Paz, “la relazione tra il riso e il sacrificio è tanto antica quanto il rito stesso” poichè “la risata terribile è una manifestazione divina”. [31061] La storia non si ferma e dopo la caduta delle antiche civiltà sono nati lungo il fiume Papaloapan numerosi villaggi e cittadine che vivono di pesca e di commercio. Uno dei borghi più belli è Tlacotalpan, affacciato sulle acque che trascinano piccoli isolotti d’erba che si sono staccati dalla riva. Dalla bianca piazza principale s’irradiano numerose vie porticate con le case e le finestre tinteggiate nei colori più vivi, con accostamenti cromatici assai fantasiosi e talvolta bizzarri: rosa, turchese, lilla e arancione. [31071] Xalapa è la capitale dello Stato di Veracruz e sorge in una zona collinare lontana dalla costa del Golfo. Nel 1986 venne inaugurato qui uno dei più bei musei del Messico, sia per quanto riguarda la ricchezza dei suoi reperti che per l’armonioso allestimento delle sale espositive in ambienti interni ed esterni. Nel “Museo Antropologico di Xalapa” si possono scoprire i capolavori dell’arte olmeca, totonaca e huasteca: teste colossali, statue di divinità e principi, idoli e animali di terracotta, offerte votive, “hachas”, “palmas” e “gioghi” legati al Gioco della Pelota, stele con rilievi, reperti di giada, ossidiana e cristallo di rocca e oggetti di cultura materiale. Vi sono le testimonianze della cultura di Papaloapan-Río Blanco con le “caritas sonrientes”, le sacerdotesse cinte da serpenti ed i bracieri cerimoniali, e vi sono le straordinarie opere della cultura conosciuta sotto il nome di “Remojadas”, uno stile che si è sviluppato in un lungo arco di tempo tra il I millennio a.C. e il I millennio d.C. e che ha prodotto del raffinato vasellame antropomorfo e una statuaria in terracotta, altamente espressiva. [31081] I Totonachi sono una misteriosa popolazione apparsa intorno alla fine dell’Epoca Classica nella regione intorno a Veracruz, allora abitata dagli antichi Huastechi con i quali vissero in armonia. Il principale centro della civilità totonaca era El Tajín - dedicato al Dio Tajín, “Signore delle Tempeste e dei Fulmini” - che visse il suo periodo di maggior splendore tra l’800 e il 1150 d.C.. La città si sviluppava su un territorio di circa 10 chilometri quadrati, di cui è stato esplorato soltanto il vasto centro cerimoniale, costituito da un impianto urbano dinamico che suddivide l’area in cinque quartieri ben distinti, dove gli edifici sono raggruppati intorno a spiazzi di piccole dimensioni. Le forme architettoniche sono meno severe che nelle altre culture mesoamericane e questo ha fatto supporre che la società dei Totonachi fosse meno rigida e più gaia, anche se non mancano segni di violenza nella loro storia. L’aspetto religioso doveva essere predominante, poiché nella città si sono trovati ben 14 campi per il rituale Gioco della Pelota, in parte rivestiti da lastre con rilievi che mostrano scene di consacrazione e di sacrifici dei giocatori. Il monumento più famoso di El Tajín è certamente la “Piramide delle Nicchie” - anche se non è il solo ad essere colmo di nicchie - che rivolge la facciata verso il tramonto. L’edificio è alto 25 metri, costruito su sette livelli e scandito da 365 nicchie che corrispondono ai giorni di un anno solare. Il Tempio - dedicato al Dio della Pioggia o al Dio del Vento - e la Piramide erano coperti di stucco colorato sul quale le nicchie risaltavano luminose, dipinte di rosso con bande di colore azzurro. Nel verde della foresta, tra tumuli ancora coperti dalla vegetazione, si trovano numerosi palazzi come la “Casa delle Colonne” con i rocchi dei pilastri finemente scolpiti e la “Grande Greca”, unico edificio di questo tipo scoperto nella Mesoamerica e che consiste in una piattaforma che disegna un’immensa “greca” sulla quale si sono trovate le fondamenta di due templi e di due campi del Giochi della Pelota. [31091] Quiahuiztlan è una parola di lingua náhuatl che significa “luogo piovoso” e designa un’importante città totonaca costruita su uno sperone a picco sulla costa di Punta Mancha, dove Hernán Cortés approdò nel 1519. Fu questo il luogo nel quale Cortés tenne la prima riunione con i rappresentanti delle trenta città totonache per stringere un patto di alleanza per combattere insieme contro gli Aztechi. Quiahuiztlan possiede tre aree ben distinte: il grande centro cerimoniale costruito sopra un promontorio naturale all’ombra del “Cerro de los Metates”, un roccione a forma di canne d’organo, la città residenziale sparpagliata sui pendii e una vasta necropoli con 78 sepolcri di pietra, sagomati a somiglianza dei “teocalli”, i “piccoli templi”. Tutta la città era circondata da massicce mura difensive, così imponenti da stupire gli Spagnoli al loro arrivo. L’apogeo della città va collocato tra il VI e il IX secolo, in epoca Classica, ma il luogo dovette poi subire varie incursioni da parte di popolazioni stabilitesi a nord, dapprima i Toltechi, intorno al X secolo, e poi gli Aztechi, a partire dal XIII secolo. [31101] Quando i soldati di Cortés entrano nel 1519 a Zempoala, la città li accoglie a braccia aperte vedendo in loro i possibili “liberatori” dal giogo azteco. I Totonachi erano allora costretti a pagare durissimi tributi agli Aztechi che avevano occupato militarmente tutta la regione, catturando 6000 prigionieri per sacrificarli sui templi di Tenochtitlán. Zempoala, il cui nome significa in lingua náhuatl “20 Acque”, venne fondata nel 1200 d.C. come capoluogo della federazione delle città-stato totonache. I monumenti - il Templo Major, la Grande Piramide, il Tempio del Dio del Vento, Ehécatl, e il “Templo de las Chimeneas” (il “Tempio dei Camini” che Cortés elesse come sua residenza) - sono raggruppati attorno ad un ampio piazzale con alte e sottili palme e sono tutti rivestiti da ciottoli di fiume aguzzi e sporgenti, chiamati “almenas”. La città vera e propria, che contava circa 30.000 abitanti, si espandeva tutt’intorno, circondata da fortificazioni, e gli edifici più importanti erano costruiti su delle piattaforme per contrastare le piene del fiume Chachalas. [31111] Gli Huastechi, che s’insediarono nelle terre settentrionali del Golfo durante il Preclassico, sono un popolo di antichissima origine che affonda le sue radici nel mondo maya: tra il 1500 e il 1200 a.C. durante le migrazioni dal meridione verso nuove terre, un gruppo maya si stabilì sulla costa non lontana da Veracruz fondendosi con le tribù autoctone. A partire dal 200 d.C. gli Huastechi svilupparono una cultura propria, mentre dal 1200 d.C. si possono notare influenze dei vicini Toltechi. Pochi sono i siti huastechi esplorati a fondo, ma il rinvenimento di numerose opere scultoree mostra l’altissimo livello artistico raggiunto da quella popolazione. Si tratta per la maggior parte di stele in pietra arenaria scolpite con superbi bassorilievi, spesso su entrambi i lati, con elementi contrastanti: la vita e la morte, il bambino e l’anziano, l’animale e l’uomo. Le figure sono ornate da gioielli e abbigliate fastosamente con grandi copricapi a raggiera o a forma di tiara: è un’arte molto sensuale e armoniosa che quasi nulla concede al grottesco o al terrificante. [31121] Secondo il mito gli Olmechi sarebbero nati dalla mistica unione tra un giaguaro e una donna, e da questa leggenda l’archeologo Miguel Covarrubias ha coniato per loro il nome poetico di “popolo del giaguaro”. Le ricerche archeologiche hanno dimostrato che le prime tracce di insediamento risalgono al 1700 a.C. e da questa misteriosa popolazione, che abitava tra il Tabasco e il Veracruz, sono discesi gli Olmechi che coltivavano il mais e si nutrivano di cacciagione e pesce. San Lorenzo è il centro più antico (1200-900 a.C.), seguito da La Venta (900-400 a.C.), mentre Tres Zapotes si sviluppa tra il 400 e il 200 a.C.. Il modello olmeco dei centri cerimoniali costruiti secondo un preciso disegno cosmologico - piattaforme, piramidi, campo per il gioco della Pelota, palazzi e sepolcri - verrà adottato da tutte le culture successive. Le città erano dotate di canali di drenaggio e vi erano riserve per l’acqua potabile. L’arte olmeca si esprimeva sia attraverso la scultura monumentale - i ritratti allegorici delle “teste giganti” e gli “altari” o “troni” - sia attraverso la lavorazione di materiali preziosi come la giada e l’ossidiana ed anche con la fabbricazione di terrecotte e sculture in pietra. Le opere di produzione olmeca sono state rinvenute in regioni molto lontane dal luogo originario - Chiapas, Oaxaca, Guerrero e Altopiano Centrale - e devono la loro diffusione alla fitta rete di vie commerciali dirette verso altre popolazioni. Intorno al I sec. a.C. i centri olmechi si spopolano definitivamente ed alcuni gruppi emigrano verso l’Istmo di Tehuantepec, la Valle di Oaxaca ed il Chiapas. [31131] Per il clima caldo e mite tutto l’anno, per le abbondanti piogge e per l’eccezionale fertitilità delle pianure alluvionali, gli antichi chiamavano la regione centrale del Veracruz “Tlalocan”, paragondandola al paradiso del Dio della Pioggia, Tlaloc, dove regnava il benessere eterno. Le genti che vi abitavano divennero abili agricoltori che inventarono le colture di trapianto e crearono un vasto sistema di irrigazione con canali: le loro città vengono descritte come splendide dimore immerse tra giardini e orti. Questa civiltà viene indicata generalmente come “Totonaca” e comprende molteplici forme di espressioni artistiche, religiose e sociali. Tra le culture più antiche troviamo quelle di Remojadas e di Papaloapan-Río Blanco, la prima sviluppatasi a partire del 1000 a.C. circa, la seconda tra il II e il IX sec.d.C.. Sono entrambe celebri per la raffinata ceramica di colore arancione con disegni eseguiti con asfalto nero liquido, le statue di terracotta plasmate con sorprendente realismo e le preziose offerte votive finemente modellate, come le “caritas sonrientes”, i piccoli volti dal riso scoppiettante. La cultura di El Tajín ebbe inizio intorno ai primi secoli della nostra era e conobbe il suo apogeo tra il VII e il X secolo. Il centro cerimoniale è considerato il più importante della cultura totonaca e mostra una serie di particolarità architettoniche: grandi piramidi costruite secondo il sistema “talud-tablero” con profusione di nicchie, fregi, greche, cornici sporgenti, mosaici di pietra, serpenti stilizzati e bassorilievi integrati ai muri e sulle colonne. Il Gioco della Pelota, legato al culto del Sole e della Fertilità, aveva un ruolo predominante nella società totonaca - ricordiamo i 14 campi da gioco nella sola El Tajín - ma vi erano anche altri riti locali come la cerimonia dei “Voladores”, durante la quale quattro uomini legati da una fune intorno alla caviglia si lanciavano nel vuoto dall’alto di un palo. Mentre altri centri totonachi - come ad esempio Zempoala - riescono a resistere in qualche modo alle incursioni dei Toltechi e degli Aztechi fino al XV secolo, El Tajín venne abbondanata nel XII secolo ed i suoi monumenti furono inghiottiti dalla giungla fino a quando non venne riscoperta nel 1785. [31141] Gli Huastechi provengono dalla famiglia linguistica dei Maya, i quali si erano stabiliti al tempo delle migrazioni intorno al 1200 a.C. sulle coste del Golfo. Molto più tardi gli Huastechi furono raggiunti dal gruppo Nonoalcas (“i portatori delle conoscenze più avanzate”), che in seguito sarebbero stati tra i fondatori di Tula. La cultura propriamente detta “huasteca” non ha mai prodotto opere architettoniche monumentali, prediligendo invece centri di medie dimensioni con strutture circolari. Questa popolazione era maestra nella scultura come testimoniano le stele scolpite in pietra arenaria. Nelle cronache postume gli Huastechi vengono descritti come un popolo “gentile” - forse anche debole - dedito alla magia, all’ubriachezza e alle pratiche erotiche. Quest’opinione venne raccolta dal frate spagnolo Bernardino de Sahagún che trascrisse la seguente leggenda: durante un banchetto offerto dagli Dei, l’invitato huasteco Cuextecatl (da qui lo stesso nome “huasteco”) si ubriacò e si denudò scandalizzando il divino convivio. Cuextecatl si vergognò e partì con la sua gente verso la regione del Golfo, dove si insediarono e si moltiplicarono. Nacque così un popolo dal comportamento “sconveniente”. [31152] Nel 1519 Hernán Cortés approda sulla costa del Golfo e - dopo aver stretto un patto di alleanza con i Totonachi a Quiahuiztlan e fondato simbolicamente Ciudad Real de la Vera Cruz - si dirige verso l’interno per raggiungere Zempoala. La sua avanguardia gli aveva descritto una città meravigliosa, luccicante d’argento, in quanto era stata abbagliata dallo stucco bianco di cui erano coperti gli edifici che brillavano sotto il sole. Cortés entra nella città con 553 soldati, 32 balestrieri, 13 archibugieri, 110 marinai, duecento indiani cubani e una decina di cavalli. [31151] Invitato dal governatore di Zempoala, Cortés vi stabilisce il suo quartier generale ed organizza insieme alla popolazione locale - esasperata per i vessamenti e l’oppressione da parte degli Aztechi - la marcia di conquista verso la capitale mexica Tenochtitlán, accompagnato da migliaia di Totonachi. Prima di partire, scandalizzato dai costumi “libertini” e dai cruenti sacrifici di sangue dei Totonachi, Cortés si assume il ruolo di grande fustigatore e decide di abbattere gli idoli sacri di quella popolazione. Il suo cronista per eccellenza, Bernal Díaz del Castillo, racconta la scena: “... una cinquantina di soldati salirono fino ai templi e rovesciarono gli idoli dagli altari e li fecero rotolare giù per la gradinata; erano tutte figure mostruose: orrendi dragoni, grandi come vitelli, e mostruosi animali, metà uomo e metà cane. Come li videro fatti a pezzi i cacicchi e i sacerdoti piangevano, si coprivano gli occhi e invocavano il perdono dai loro Dei, dicendo che era tutta colpa di quegli Spagnoli, ai quali non potevano neppure fare la guerra per paura dei Messicani.” [321] Terra degli Zapotechi e dei Mixtechi, la Valle di Oaxaca fu abitata fin dagli albori della storia messicana: già nell’8000 a.C. vi vivevano tribù di raccoglitori-cacciatori e a partire dal 1500 a.C. vennero costruiti i primi villaggi di capanne abitate da agricoltori sedentari. Mille anni più tardi, intorno al 500 a.C., venne fondata Monte Albán e con essa nacque la civiltà urbana, si consolidò il pantheon degli Dei e si formò una società teocratica. Monte Albán divenne una splendida metropoli nel cuore delle sierre di Oaxaca che accolse influenze culturali da Teotihuacán e dal mondo olmeco e maya. Col tempo si rafforzarono anche i centri minori come Dainzú, Zaachila o Mitla, che divenne la capitale amministrativa dei Mixtechi, giunti nella Valle nel periodo Post-classico. Gli Zapotechi ed i Mixtechi chiamavano se stessi “Popolo delle Nubi” e parlavano diverse lingue appartenenti ad un gruppo principale denominato “otomangue”. [3211] All’inizio del XVI secolo, insieme ai Conquistadores, arrivano le prime confraternite religiose, costituite in particolare da Domenicani, che spesso hanno difeso gli indigeni dagli abusi e dalle vessazioni delle autorità civili. Il comportamento disumano di tanti governatori e comandanti divenne talmente intollerabile che - su richiesta dei frati - il Pontefice Paolo III è costretto ad emettere una Bolla nella quale decreta che gli indios sono esseri umani, che hanno il diritto di ricevere i sacramenti e che non devono subire la schiavitù. In quel periodo nascono numerose missioni domenicane che testimoniano il grande fervore nell’evangelizzazione degli indigeni. [32111] La chiesa di San Jerónimo nel villaggio di Tlacochahuaya è un mirabile esempio di fusione tra arte spagnola ed elementi indigeni. Il complesso religioso venne fondato dai Domenicani nel 1558 e fu terminato soltanto nel 1674: erano anni tumultuosi che videro la ribellione degli Indios di Oaxaca contro lo strapotere degli Spagnoli che avevano tolto loro la terra e trattavano i nativi peggio dei cani. La guida spirituale della missione fu allora affidata al frate Juan de Córdoba che con veemenza si oppose agli abusi dei Conquistadores, accogliendo nel convento molti indigeni. La chiesa possiede un’architettura austera che si distacca dal comune barocco popolare, mentre nelle decorazioni dell’interno traspare la partecipazione di manodopera india. [32121] Fuori le mura del villaggio di Cuilapan - che in lingua náhuatl si chiamava Coyolapan “fiume del coyote” - venne costruito il convento domenicano di Santiago Apostolo, che sorge solitario nell’arida pianura. Si tratta di un’opera monumentale e potente, benché sia rimasta incompiuta: alla chiesa manca totalmente il tetto e le colonne della navata centrale guardano il cielo. Il complesso venne edificato tra 1548 e il 1555 in stile rinascimentale, mentre la facciata della chiesa mostra elementi barocchi. Il convento fu abbandonato già nel 1663 quando i frati si trasferirono ad Oaxaca. A Santiago Apostolo trovò sepoltura una principessa indigena - battezzata Juana Donaje - figlia di Cocijo-eza, l’ultimo re zapoteco di Zaachila che si era convertito al cristianesimo. [32131] I frati domenicani, inviati dalla Spagna per convertire gli indigeni di Oaxaca, impararono le lingue autoctone, tradussero il Vangelo con l’ausilio di illustrazioni facilmente comprensibili e cercarono di edificare le loro missioni nel cuore delle terre abitate dai nativi. Memori dell’assoluto divieto d’entrata nei templi dei loro antichi Dei, gli indigeni spesso si rifiutavano di assistere alla messa all’interno delle nuove chiese, per cui i Domenicani della chiesa di Santa María di Coixtlahuaca costruirono a fianco della parrocchia una grande “cappella all’aperto”. Fondato nel 1546, il complesso di Santa María è uno dei più bei esempi di architettura religiosa seicentesca del Messico e possiede una lineare facciata con medaglioni e nicchie scolpite tra due pilastri e un interno finemente decorato con un retablo barocco carico di sculture e pitture di santi di scuola spagnola. [32011] Monte Albán aveva già perso il suo predominio sulla regione - ormai frammentata in tanti piccoli feudi-vassalli degli Aztechi - quando nel 1521 le truppe spagnole guidate da Francisco de Orozco e da Diego de Ordaz entrarono vittoriose nella Valle di Oaxaca. Dopo aver ridotto in cenere ciò che rimaneva di Monte Albán, i Conquistadores fondarono una guarnigione ai pendii del colle chiamandola “Antequera”. Per volontà di Carlo V, nel 1529, la piccola cittadella ricevette lo status di “città reale” con il nome di Oaxaca - una storpiatura dell’azteco “Huaxyaca” che significa “boschetto di acacie” - e Hernán Cortés venne nominato “Marchese di Oaxaca” per i suoi servigi alla Corona Spagnola. L’impronta della città è tutt’ora coloniale con grandi vie diritte, case basse con finestre incorniciate da grate in ferro battuto, palazzi con patii interni e ampie piazze, come lo “Zócalo” con la maestosa Cattedrale barocca del XVI-XVIII secolo. Gran parte della città venne distrutta da due violenti terremoti - nel 1845 e nel 1931 - e ricostruita secondo gli originari canoni seicenteschi. La chiesa più notevole è Santo Domingo, fondata - insieme all’annesso convento - dall’Ordine dei Domenicani nel 1575. L’interno della chiesa, con navata centrale e undici cappelle tra cui quella rococó della “Vergine del Rosario”, è una sinfonia di rivestimenti d’oro, con stucchi e statue di grande pregio artistico, come il grande Albero Genealogico del fondatore dell’Ordine Santo Domingo de Guzmán, scolpito a rilievo sopra l’entrata. Gli ambienti del convento, affacciati su un magnifico chiostro con nervature gotiche, ospitano il Museo dello Stato di Oaxaca che espone le ricchissime collezioni archeologiche della cultura zapoteca e mixteca, tra cui il prezioso “Tesoro della Tomba 7” di Monte Albán. [32021] In posizione elevata sopra una valle verde, tra giganteschi cactus e campi coltivati, sorge Yagul, uno dei centri zapoteco-mixtechi che videro il loro periodo di maggior splendore tra l’800 e il 1200 d.C., quando l’egemonia di Monte Albán era ormai spezzata. A quell’epoca la vita sociale e religiosa non aveva più come punto focale il centro cerimoniale, ma si riferì piuttosto ai palazzi e ai possedimenti dei singoli governatori. Uno degli edifici più interessanti di Yagul è infatti il “Palazzo delle Sei Corti”, un complesso residenziale per i nobili e i sacerdoti che si articola intorno a dei patii quadrati con un labirinto di gallerie, porte e colonne. Su un livello più basso, il palazzo è preceduto da un grande patio con la Sala del Consiglio e altri edifici che facevano parte del centro civico. Nella stessa area si trova un grande Campo per il Gioco della Pelota - privo dei bersagli ad anello, caratteristica comune in tutta la regione oaxachena - costruito e ampliato tra il VI e il X secolo. La terrazza inferiore è occupata dal “Patio della Triplice Tomba”, costituito da quattro templi e da un altare per i sacrifici. Dalla corte si scende verso tre camere funerarie nelle quali furono trovati numerosi scheletri e offerte votive. In tutto il sito sono state rinvenute circa 30 tombe ipogee, alcune decorate con glifi zapotechi e con rilievi. [32031] Tra il 1400 e il 1150 a.C. San José Mogote era certamente la comunità più importante della Valle di Oaxaca. A partire dal 1200 a.C. si manifestano forti influssi olmechi, come denotano l’adozione della cosmologia olmeca, delle costruzioni in argilla e pietra e dei rilievi con giaguari e rapaci. Probabilmente da San José Mogote partì un gruppo di abitanti per fondare, nel 500 a.C., il centro di Monte Albán. Lambityeco si colloca invece intorno al 700-900 d.C., anche se il sito era già stato occupato in un periodo precedente. Vi furono trovate numerose immagini di Cocijo, il Dio della Pioggia degli Zapotechi, che appare sulle urne funerarie, sui bracieri e, in forma di mascherone, sulle piramidi. L’area archeologica di Zaachila, che fu l’ultima città-stato degli Zapotechi, si trova al centro della cittadina moderna ed è stata scavata soltanto parzialmente. Di notevole interesse sono le due tombe trovate sotto il patio di una casa, che hanno rivelato preziosi rilievi zoomorfi che raffigurano teste di giaguaro, civette, tartarughe, pipistrelli e due statue di divinità dell’Inframondo. [32041] Dainzú prende il nome dalla pianta che vi cresce più rigogliosa, il “cactus a canne d’organo”. Fondata nel 600 a.C., diventò un importante centro cerimoniale zapoteco con architetture monumentali, templi ed un ampio Campo per il Gioco della Pelota, costruito intorno al X-XI sec.d.C.. Sugli edifici si notano numerosi rilievi con immagini di sacerdoti e giocatori - nella sola “Pelota” vi sono 35 stele incise - abbigliati con i costumi protettivi caratteristici per la Valle di Oaxaca: un casco integrale a forma di giaguaro, un’ampia fascia sul petto e sulle braccia, dei paracolpi sulle gambe e dei lunghi guanti. I giocatori afferrano la palla di caucciù con le mani, un gesto insolito nel classico gioco della Pelota. Purtroppo le intemperie hanno corroso le pietre, per cui le figure - tutte rappresentate nella posizione dinamica del gioco - sono poco distinguibili. [32051] Una leggenda vuole che Mitla sia stata creata da un gigantesco serpente d’acqua con due corna, trasmutazione di una divinità di nome Condoy, e per questo le decorazioni delle rovine di Mitla ricordano le scaglie della pelle di un serpente. “Mictlan” significa in lingua náhuatl “luogo di morte” anche se all’apparenza i monumenti di Mitla sembrano i più vitali e splendenti di tutta la regione. All’inizio della nostra era, la città si sviluppò insieme alla vicina Monte Albán come importante centro zapoteco, ma intorno al X secolo venne eletta capitale dai Mixtechi, anche se l’attribuzione delle opere architettoniche a questi ultimi è tutt’ora controversa, poiché ai tempi della conquista spagnola la città era abitata prevalentemente da Zapotechi. L’edificio più bello è senza dubbio il “Grupo de las Columnas”, chiamato così per le sei massicce colonne che ornano la sala principale del palazzo, residenza del Gran Sacerdote Uija-táo, “colui che vede tutto”. Le facciate esterne e i muri del patio interno sono mirabilmente decorati da fregi geometrici composti da più di 100.000 tessere di pietra. Vi sono quattordici diversi tipi di “greche” che rappresentano concetti religiosi come il serpente piumato, l’acqua, il cielo e la terra. Degli affreschi che ornavano le sale si sono salvate poche tracce, ma fortunatamente i cicli narrativi vennero ricopiati scrupolosamente alla fine dell’Ottocento dagli studiosi Eduard Seler e Antonio Peñafiel. Gran parte degli edifici vennero demoliti dopo l’arrivo degli Spagnoli e le loro pietre furono usate per costruire la chiesa di San Paolo, che svetta con le sue cupole rosse sopra il cosiddetto “Grupo de las Iglesias”, una serie di corti interne con resti di pitture e ricche decorazioni geometriche. [32061] Non lontano da Mitla un ripido sentiero porta in un luogo fatato chiamato Hierve el Agua, un tempo considerato sacro dagli Zapotechi. Su una vasta piattaforma in mezzo all’arida sierra sgorgano numerose sorgenti di acque minerali effervescenti che formano pozze e piscine che sembrano ribollire sotto il sole. Tutt’intorno si sono formate candide cascate pietrificate, grazie alle incrostazioni di minerali e ai sedimenti di travertino depositatisi e fossilizzatisi nei secoli. Gli antichi sfruttavano le sorgenti di Hierve el Agua per l’irrigazione dei campi coltivati mediante un complicato sistema idraulico costituito da terrazzamenti e canali: vi sono ben 6.375 metri di canalizzazioni e 600 terrazze, di cui se ne possono contare ancora oggi 416. [32071] Nella Valle di Oaxaca sono state trovate tracce di insediamenti che datano fin dal IX millennio a.C. e, a partire da quell’epoca, si sono sviluppate diverse culture che hanno raggiunto il loro pieno sviluppo con l’avvento degli Zapotechi e dei Mixtechi. Tra il 1500 e il 500 a.C. si sviluppa il “Periodo dei Villaggi”: nasce dapprima la Cultura di San José Mogote (1500 a.C.), seguita dalla Cultura di Guadalupe (800 a.C.) e dalla Cultura Rosario (600 a.C.). Tra l’XI e il IX sec.a.C. si notano influssi olmechi e maya. Nel 500 a.C. viene fondata Monte Albán ed ha inizio il “Periodo Urbano” che va dal V sec.a.C. al IX sec.d.C. e che vede fiorire numerosi centri come Yagul, Dainzú, Loma Larga e tanti altri. Monte Albán subisce l’influenza di Teotihuacán e diventa il più importante centro religioso-politico degli Zapotechi. Dall’800 a.C. fino all’arrivo degli Spagnoli all’inizio del XVI secolo si sviluppa il “Periodo delle Città-Stato” che vede la creazione di tanti singoli feudi, come Zaachila, o la rinascita di centri come Yagul. Nel VII sec.d.C. arrivano dalle terre settentrionali i Mixtechi che fondano la loro prima dinastia e, intorno al X secolo, eleggono Mitla come loro principale centro amministrativo. La convivenza tra Zapotechi e Mixtechi - dapprima conflittuale, ma poi pacifica - viene interrotta al termine del XV secolo dall’arrivo degli Aztechi che caricano le popolazioni locali di pesanti tributi. La grande svolta storica avviene con l’arrivo degli Spagnoli nel 1521 che, dopo violenti combattimenti con le rivoltose popolazioni della Valle, annettono la regione al regno della “Nuova Spagna”. Le missioni domenicane si insediano qui già dal XVI secolo ed operano soprattutto per difendere gli indigeni dai soprusi dei Conquistadores. Oaxaca diventa Stato Federale indipendente nel 1824. [331] L’universo dei Maya abbraccia un vastissimo territorio dell’America Centrale che comprende lo Yucatán, il Chiapas, il Campeche, il Quintana Roo, parte del Tabasco, il Guatemala, il Belize e le regioni occidentali dell’Honduras e del Salvador. In Epoca Classica, tra il III ed il IX secolo, questa civiltà ha fondato numerose città-stato con splendide opere architettoniche e artistiche, è stata capace di sviluppare un complesso sistema di scrittura, ha inventato - primo di tutti i popoli - il valore matematico dello zero e ha saputo calcolare un calendario, con un ciclo solare di 365 giorni, di sorprendente precisione. La società Maya era regolata da una rigida gerarchia che vedeva i sovrani al primo posto della scala sociale, seguiti dalla casta privilegiata dei sacerdoti e poi dai guerrieri, dai mercanti e, in ultimo, dagli artigiani e dai contadini. [3311] Il Chiapas è una terra verde e selvaggia che si estende tra l’altopiano orientale della Sierra Madre del Sud, dove le vette dei vulcani raggiungono i 4000 metri di altezza, e il fiume Usumacinta che scorre attraverso la fitta foresta tropicale sul confine con il Guatemala. Tra Palenque e l’Usumacinta nascono dei grandiosi centri maya che vivono il loro apogeo tra il IV e l’VIII sec.d.C.. Nonostante l’abbandono di quelle terre da parte dei Maya classici nel IX secolo, la regione continuerà ad essere abitata dai loro discendenti ed in particolare dagli indios Lacandoni, che opporranno un’estenuante resistenza agli Spagnoli, giunti nel Chiapas nel 1524. [33111] Il più importante insediamento spagnolo in Chiapas fu San Cristóbal de Las Casas, fondata nel 1528 dal conquistatore Diego de Mazariego che vi costruì la sua residenza nello stile dei grandi palazzi nobiliari con profusione di ornamenti platereschi. La città venne dedicata a San Cristóbal e prese in seguito il nome di Bartolomé de Las Casas, vescovo del Chiapas e strenuo difensore dei diritti degli Indios. A lungo amministrata dagli Spagnoli del Guatemala, la città divenne capitale dello Stato del Chiapas dopo la proclamazione d’Indipendenza del Messico, dal 1822 fino al 1892. Sullo Zócalo, la grande piazza nel cuore della città dove si erge una immensa croce di legno in memoria della conversione degli indigeni, si affaccia la cattedrale “Nuestra Señora de la Asunción”, fondata nel 1528 ma completamente rinnovata nel 1693 con ornamenti barocchi all’esterno e all’interno. La più importante chiesa della città è Santo Domingo, costruita tra il 1547 e il 1560 in posizione elevata, intorno alla quale si svolge ogni giorno il colorito mercato degli indios Tzotzil e Tzeltal che scendono dalle vicine montagne per offrire i loro prodotti agricoli e di artigianato. [33121] Nelle umide foreste tropicali, intorno alle lagune, vicino a cascate spettacolari e lungo le sponde del vasto fiume Usumacinta, i Maya costruirono le loro città-stato, di cui la più potente fu certamente Palenque. Alcuni siti, come Chinkultic o Piedras Negras (quest’ultimo si trova in Guatemala sulla linea di confine con il Messico), sono tutt’ora sperduti nella foresta e accessibili soltanto con piccoli aerei da turismo o in battello. Ogni piccolo regno possedeva il suo centro cerimoniale con templi costruiti su piattaforme, stele commemorative, palazzi e una corte per il sacro gioco della palla, dotata di un “temascal”, il bagno di vapore per la purificazione. [33131] Nel 1946 vennero scoperte sul Río Lacanhá delle rovine completamente sommerse dalla vegetazione, tra cui spiccava un tempio decorato con pitture maya meravigliose che dettero il nome al sito - “Bonampak” - che in lingua maya vuol dire “muri dipinti”. L’apogeo di Bonampak si colloca nel Periodo Classico, tra il VII e il IX secolo, epoca alla quale risalgono anche gli affreschi, dipinti con colori intensi tra cui prevalgono il rosso cupo, il verde e il blu-turchese. Nel ciclo narrativo del “Templo de las Pinturas” è raffigurato l’“Halach-Uinic” - il sovrano della città, identificato con Chaan Muan - circondato dalla sua famiglia e dai dignitari di corte in vesti sontuose. Vi sono rappresentate scene di battaglia con i guerrieri che vanno a caccia di prigionieri da sacrificare, scene di cerimoniali, di danzatori e musicanti, di autosacrifici (l’atto consisteva nel trafiggersi la lingua o i genitali con una cordicella ricoperta di spine per raccogliere goccie di sangue da offrire agli Dei), di divinità dall’aspetto grottesco e la vivida rappresentazione del sacrificio umano. Gli affreschi si possono ammirare in situ, oppure, per coglierne i dettagli, studiare le numerose riproduzioni come quella nel Museo Antropologico di Città del Messico. [33141] Sulle rive del fiume Usumacinta sorgeva Yaxchilán, “il luogo delle pietre verdi”, un importante centro religioso e politico dei Maya che, insieme a Palenque e a Tikal, dominava nel Periodo Classico le regioni meridionali. Il sito venne scoperto dallo studioso inglese Alfred Maudslay che fece smantellare sette architravi finemente scolpite per trasferirle al British Museum di Londra. Estesa tra due “acropoli”, Yaxchilán possedeva più palazzi che templi e vi furono trovate numerose stele, altari e lastre di pietra con rilievi che illustrano il passaggio del potere tra i sovrani, l’atto di autosacrificio e scene di battaglia. Ogni rappresentazione è circondata da un gran numero di glifi, grazie ai quali si sono potuti ricostruire la cronologia dinastica e i nomi dei re e delle loro consorti. Erano nomi bellissimi che evocavano il potere e la sacralità del loro ruolo: “Scudo-Giaguaro”, re nel VII secolo, insieme a sua moglie “Pugno di Pesce”, o “Uccello-Giaguaro”, re nell’VIII secolo, accanto ad un prigioniero di stirpe reale, “Capo di Gioiello”. [33151] Nella terra delle popolazioni Lacandoni, in una vallata incastonata tra verdi colline, i Maya del Periodo Classico costruirono Toniná - che in lingua tzetzal significa “casa di pietra” - un immenso complesso palaziale-religioso che divenne l’avamposto militare della regione. Gli archeologi trovarono sul luogo un numero impressionante di lastre e stele sulle quali sono raffigurati prigionieri destinati al sacrificio. La vittima più famosa del rito di sangue fu “Kan Hul”, ultimo governatore di Palenque, che venne immortalato su un disco-bersaglio del Campo della Pelota. I sovrani più importanti furono “Tzost Choj” (“Tigre-Pipistrello”) e il “Signore Testa di Coniglio” che fecero scolpire sulle stele le loro imprese militari e la geneologia delle loro dinastie. Toniná sopravvisse al crollo dei regni maya nel X secolo e continuò a prosperare accanto ai grandi centri maya-toltechi come Chichén Itzá e Mayapán. Gli edifici ed i templi si innalzano su sette terrazze sovrapposte e sono costruiti interamente in mattoni di pietra, coperti di stucco con rilievi che raffigurano le divinità dell’Inframondo, il “Mostro della terra”, i simboli di Kukulkán - il “serpente piumato” - e del Dio dell’Acqua, Chaac. Ogni piattaforma possiede diversi templi, intorno e sotto ai quali si trovano tombe, troni, pozzi per il sacrificio, labirinti e una galleria sotterranea che portava fuori dalla cittadella. [33161] All’arrivo degli Spagnoli, nel 1524, il Chiapas è abitato da vari gruppi linguistici: maya-yucateni, chontales, zoque, tzotzil, tzeltal e lacandoni. La conquista spagnola non fu mai totale e molte furono le insurrezioni popolari represse nel sangue. I Lacandoni si sono rifugiati nelle terre accidentate delle sierre e hanno conservato fino ad oggi molte delle loro tradizioni religiose e sociali: gli archeologi hanno scoperto che a Yaxchilán i Lacandoni hanno continuato a celebrare gli antichi riti, venerando la testa di un re, appartenuta ad una statua maya del palazzo reale. Nonostante il Chiapas possieda grandi ricchezze naturali - caffè, cacao, miniere d’oro, d’argento e di rame e soprattutto il petrolio - è una terra povera, con una popolazione che vive di stenti, rintanata nei villaggi ed esclusa dal progresso materiale. Moti di ribellione degli Tzotzil, degli Tzeltal e dei Lacandoni si sono susseguiti nei secoli e hanno avuto risonanza mondiale nel 1994 quando l’esercito zapatista (EZNL) del sub-commandante Marcos occupò San Cristóbal de Las Casas, una rivolta soppressa violentemente dall’esercito messicano. A tutt’oggi la situazione politica del Chiapas, già flagellato da catastrofi naturali come uragani e inondazioni, non è tranquilla anche se è stato avviato un dialogo con il governo federale. [3321] Terra di contrasti tra mare, foreste vergini e zone aride, il Campeche viene raggiunto dai primi gruppi Maya nel periodo Preclassico Medio, tra il VI e il I sec.a.C.. All’inizio della nostra era si assiste ad un forte incremento demografico e quindi alla nascita e allo sviluppo di numerose città, specie nei territori del Río Bec e del Chenes, dove sono stati scoperti circa cento siti archeologici. Nel 1517 gli Spagnoli tentano di sbarcare a Champotón, sulla costa del Campeche, ma vengono respinti dalla popolazione ostile e subiscono la prima sconfitta. Soltanto nel 1540 il conquistatore Francisco de Montejo riesce ad occupare una parte della regione. Nel corso dei secoli seguenti, le numerose insenature della costa del Campeche diventano rifugio privilegiato dei filibustieri - tra cui il corsaro Francis Drake e la donna-pirata Mary Read - che si arricchiscono con il contrabbando del “palo de tinte”, un albero che cresce nel Campeche dal quale si estrae una preziosa linfa necessaria per produrre il colore rosso. [33211] Il significato del nome “Edzná” è controverso: potrebbe voler dire “casa delle smorfie” o “casa degli eco” oppure semplicemente “casa del popolo Itzá”, dal nome dei governanti della città nel periodo Postclassico. Il luogo venne scoperto nel 1906 dai contadini della zona e dal 1927 si sono susseguite numerose campagne di scavo per liberare la grande città dalla vorace vegetazione. Fino ad oggi sono stati restaurati una ventina di edifici sparsi su 8 ettari di terreno. Il centro cerimoniale maya è di una spazialità sconfinata: l’immenso piazzale è delimitato ad ovest da una gradinata lunga 100 metri, priva dell’edificio sovrastante, e ad est dalla “Grande Acropoli” dominata dalla “Piramide dei Cinque Piani”, che risale al VI-VIII secolo. Due templi, che ricordano lo stile del Petén (Guatemala), affiancano l’ingresso della “Grande Acropoli”, mentre sulla piattaforma interna si trova una piccola piramide con tempio, chiamata “Casa della Luna”. I livelli inferiori della “Piramide dei Cinque Piani” rispecchiano lo stile del Río Bec e sembra servissero da residenza ai sacerdoti, mentre la parte superiore, disadorna rispetto ad altre costruzioni dell’area culturale detta “Chenes-Río Bec”, era consacrata esclusivamente ai cerimoniali. L’influenza dei Maya del Petén risulta anche dai giganteschi mascheroni, associati al culto del Sole, di un tempio ubicato al lato della piazza centrale. Dai glifi presenti sulle scalinate e sulle numerose stele si è potuto risalire a dieci sovrani che governarono ad Edzná tra il IV e il IX secolo. Negli anni tra il 1200 e il 1400 molte strutture vennero smantellate per costruirne nuove di minori dimensioni, ma già intorno 1450 il luogo fu definitivamente abbandonato. [33221] In lingua maya “Becán” significa “sentiero del serpente” o anche “fossato formato dall’acqua” e deve il suo nome al profondo vallo circolare con sette ingressi che cinge tutta la città. Immersa nella folta foresta - diradata dagli archeologi per liberare i monumenti rispettando profondamente la natura - Becán possiede delle costruzioni imponenti nello stile del Río Bec, che furono iniziate intorno al I sec.d.C., sebbene l’apogeo della città si collochi tra il VII e l’VIII secolo. Si conoscono poco la storia e la funzione sociale della città anche perché non vi sono state trovate iscrizioni e gli archeologi hanno quindi indicato gli edifici con semplici numeri. Tutto lascia supporre che fosse un importante centro regionale, poiché le strutture piramidali hanno un aspetto possente, dotate com’erano di “finte torri” tipiche dell’architettura “Río Bec”, con grandi pilastri e ripide scalinate monumentali. Gli edifici sono raggruppati intorno a tre grandi piazze: la prima, con al centro un altare circolare per le offerte agli Dei, è dominata da quattro strutture piramidali con torri per le osservazioni astronomiche e vari edifici annessi che recano ornamenti geometrici in pietra; la seconda piazza è occupata dal Campo per il Gioco della Pelota, mentre sul terzo piazzale si annalza la cosiddetta “Struttura VIII”, una piramide massiccia, con otto ambienti colonnati sulla cima e dieci grandi stanze nascoste nell’interno dell’edificio dove, forse, venivano consumati dei riti individuali come l’autosacrificio. [33231] Il monumento più spettacolare di Chicanná è un edificio la cui facciata consiste in una gigantesca maschera stilizzata con la bocca spalancata: Chicanná in lingua maya significa proprio “casa delle fauci del serpente”. Scoperta soltanto nel 1969, la città doveva essere un centro elitario, dipendente da Becán e abitato da persone facoltose vista la ricchezza decorativa dei suoi edifici e lo splendore degli oggetti di giada, alabastro e ossidiana rinvenuti sotto le rovine. Chicanná fiorì tra il VI e l’VIII secolo, ma già nel 1100 venne abbandonata dai suoi abitanti. Nell’architettura predomina lo stile “Río Bec”, mescolato ad elementi decorativi “Chenes”, come nella cosiddetta “Struttura XX”, un edificio a due piani con quindici stanze, ornato nella parte superiore e sugli angoli da maschere zoomorfe sovrapposte. [33241] Il centro maya di Balamku è una scoperta recentissima - del 1990 - ed è tuttora indagato dagli archeologi messicani. Tra la fitta vegetazione della foresta si intravedono resti di edifici, gradinate e monticoli di forma piramidale. La costruzione più imponente è la cosiddetta “Casa dei Quattro Re”, una grande struttura del Periodo Classico, sovrapposta ad un edifico più antico che ha conservato un bellissimo fregio dove compaiono giaguari, mascheroni del “Mostro della Terra”, coccodrilli e figure ibride. I preziosi stucchi che simboleggiano il ciclo dinastico connesso al ciclo solare sono in opera di restauro. [33251] Xpuhil è un nome curioso che signfica “luogo delle code di gatto” che venne dato ad un importante centro maya costruito tra l’VIII e il X secolo, anche se vi sono tracce di un insediamento più antico. La parte centrale del sito è occupata dal cosiddetto “Palazzo”, un vasto edificio scandito da tre torri ad imitazione dei complessi templari di Tikal nel Guatemala. Ma nel caso di Xpuhil l’aspetto piramidale delle torri è un puro effetto architettonico e non aveva alcuno scopo funzionale: i gradini sono troppo stretti e ripidi per essere scalati. Sulla facciata delle torri erano applicate delle grandi maschere che forse rappresentavano dei felini, elemento comune nelle costruzioni delle culture Río Bec-Chenes. [33261] L’edifico più importante di Hochob - eccellente esempio in stile “Chenes” con elementi “Puuc” - è il Tempio II, interamente duplicato nel parco del Museo Antropologico di Città del Messico. Il Tempio risale al IX-X secolo e possiede una splendida facciata decorata da complicati intrecci a mosaico di pietra con i simboli del serpente celeste e, al centro, una gigantesca maschera del Dio della Pioggia, Chaac, che forma la porta. Le sculture di divinità ai lati dell’ingresso vengono associate al culto maya per gli esseri sovrannaturali che governano il Cielo. Sulla cresta dell’edificio si ergono una serie di statue che sembrano uomini congelati nella rigida posizione “sull’attenti”. [33271] Chenes (“sorgente”) e Río Bec sono due subregioni del Campeche - la prima al confine con lo Yucatán, la seconda con il Quintana Roo - caratterizzate da stili architettonici che non trovano riscontro in nessun’altra parte del Messico. Le popolazioni maya del Río Bec furono fortemente influenzate, intorno al VII secolo, dai Maya del Petén (l’attuale Guatemala) che avevano eretto le altissime piramidi a torre di Tikal. A città come Xpuhil o Chicanná le vorticose piramidi diventano esclusivamente elementi decorativi: gli edifici sono scanditi da torri con gradini così ripidi e stretti che risultano impossibili da salire, e anche il piccolo tempio sulla sommità, decorato da rilievi, è ridotto a puro simbolo. Lo stile “Chenes” è invece caratterizzato dalla profusione di elementi decorativi - come ben si vede nel Tempio di Hochob - che occupano ogni spazio disponibile delle facciate degli edifici: intorno all’ingresso principale, costituito dal volto stilizzato di una divinità dalla bocca spalancata, vi sono innumerevoli rilievi zoomorfi e antropomorfi, simboli divini e trame geometriche. Col passare del tempo il “barocco” stile Chenes verrà reso più sobrio e si evolverà nello stile “Puuc” che limita la decorazione alla fascia alta degli edifici come nel Palazzo del Governatore di Uxmal. [3331] Nel Quintana Roo il mare, le lagune e le foreste brillano di un incredibile color smeraldo. Il clima perennemente caldo, le lunghe spiagge dalla sabbia finissima e le isole nel Mar dei Caraibi a pochi chilometri dalla costa hanno fatto della regione un paradiso turistico che però rischia di compromettere l’equilibrio naturale della sua flora e fauna. Fortunatamente vaste aree sono state trasformate in riserve naturali dove oggi vivono indisturbate tartarughe, scimmie, pappagalli, iguana e ogni specie di felini. Densamente popolato nel Periodo Classico, il Quintana Roo venne raggiunto dagli Spagnoli nel 1518, ma i Maya opposero una fiera resistenza fino al 1545. Quelle terre rimasero praticamente abbandonate fino all’inizio del XIX secolo quando, dopo dure battaglie, gli ultimi discendenti dei Maya riuscirono a liberarsi dagli oppressori. In seguito la regione prese il nome del poeta che capeggiò il movimento indipendentista, Andrés Quintana Roo. [33311] Ancora lontani dalla costa i navigatori potevano già avvistare “El Castillo” di Tulum, costruito sulle scogliere del Mar dei Caraibi come monumento preminente di una città maya fortificata nel Periodo Postclassico, cioè dopo il 1200 d.C.. In verità non si tratta di un “castello”, ma di una piramide maya che reca sulla sommità un tempio ed un altare di pietra per i sacrifici umani. Sopra l’ingresso appare l’immagine del “Dio discendente” al quale era dedicato anche un altro tempio del centro cerimoniale. Il “Dio discendente”, Ah Muencab, è una divinità che viene nominata spesso nel “Popol Vuh”, il libro sacro dei Maya Quiché del Guatemala, ed è rappresentata per metà uomo e per metà ape, con ali sulle braccia e sulle spalle e una coda di uccello. Il Dio, che scendeva dal cielo all’ora del tramonto, appariva in forme multiple ed era presente ai quattro angoli del mondo come il Dio Chaac o le divinità Bacab. Allineato ad un grande palazzo si trova il “Tempio degli Affreschi”, un edificio più volte ricostruito e terminato in epoca tarda, intorno al 1450. Le pitture raffigurano il vasto pantheon degli Dei maya, tra cui spiccano le figure del Dio supremo Itzamná e della sua sposa Ixchel, Dea della Luna e della Fertilità, venerata in molti santuari del Quintana Roo. Grazie al ritrovamento di numerose stele con glifi si è potuto stabilire che Tulum (“fortezza”) era abitata dai Maya almeno dal V sec.d.C. ed era conosciuta con il nome di Zamá che significa “alba”. [33321] Una delle più estese città maya fu Cobá che copriva oltre 50 chilometri quadrati, possedeva una rete stradale con 45 “sacbeoob” - in lingua maya “strade bianche”, in parte lastricate, coperte di malta, larghe fino a 10 metri e lunghe fino a 100 chilometri - ed era abitata, nel momento del suo massimo splendore tra il VII e il X secolo, da più di 40.000 persone. I primi scavi vennero eseguiti dall’archeologo austriaco Teobert Maler a partire dal 1891, ma fino ad oggi soltanto una parte delle 6.500 strutture esistenti è stata portata alla luce. Tra alberi secolari e laghi - Cobá significa “acque mosse dal vento” - si erge il cosiddetto “Gruppo Cobá” con un’enorme piramide a nove livelli con gli angoli smussati chiamata “Templo de las Iglesias”, vicino a cui si trova un vasto Campo per il Gioco della Pelota dotato di massicci anelli di pietra. Nelle radure della fitta foresta si trova il “Grupo de las Pinturas”, un tempio con resti di affreschi, e il “Grupo Macancox” che prende il nome dal vicino lago e consiste in un raggruppamento di stele del VII secolo che rappresentano i sovrani di Cobá accanto alle loro mogli, tutte scelte tra le dinastie maya di Tikal. Un edificio maestoso è il cosiddetto “Castillo” del complesso “Nohoch Mul” (“grande collina”): la piramide è alta 42 metri e bisogna arrampicarsi su 120 scalini per giungere alla cima dove si trova un tempio che reca sull’architrave due rilievi del “Dio Discendente”. [33331] Kohunlich, “collina delle palme”, deve il suo nome ad una specie di palma dal fogliame luminoso che si dispiega come ali di uccello e che cresce soltanto in questa regione. Si tratta di una delle più antiche città maya, che ebbe il suo apogeo tra il IV e l’VIII secolo e che possiede degli splendidi monumenti che testimoniano la grande attenzione dei loro costruttori per i calcoli dei cicli astronomici. Gli edifici della “Piazza delle Stele”, databili all’VIII secolo, sono orientati verso i quattro punti cardinali e contengono precisi elementi architettonici per l’osservazione dei solstizi e degli equinozi. In posizione elevata sorge la “Piramide de los Mascarones”, eretta nel V secolo e decorata sui lati della scalinata da grandi maschere rivolte verso oriente, associabili alla divinità Kinich-Ahau e al culto del Sole. I loro volti sono un’allegoria del cosmo stesso e dell’anno sacro di 260 giorni e mostrano i simboli dei serpenti celesti, gli artigli e gli occhi del giaguaro - connessi entrambi all’Inframondo - e le acconciature frontali che rappresentano il sole diurno. Kohunlich possiede 200 monticoli archeologici, in parte ancora da scavare: uno degli ultimi restauri riguarda il “Palazzo dei 27 Scalini”, una residenza delle dinastie regnanti tra il VI e il XII secolo e dai ritrovamenti si pensa che vi abbiano vissuto almeno trecento individui. [33341] Resta ancora molto da scoprire a Dzibanché, nome che significa “scrittura su legno” e che venne dato al luogo dopo il ritrovamento di una trave lignea scolpita con glifi. Importante centro religoso maya a partire dal Periodo Classico, Dzibanché possiede numerose strutture piramidali con creste traforate o templi, all’interno delle quali erano seppelliti i governanti, come nel “Tempio del Búho” dove è nascosta una cripta sotterranea - ancora da scavare - simile a quella della Piramide delle Iscrizioni a Palenque. [33351] Gli insediamenti sulla costa mostrano forti influenze da parte dei Maya guatemaltechi: uno di questi è Muyil, una città minore, ma importante centro di scambio tra il mare ed i regni interni. Gli edifici di Muyil appartengono tutti all’epoca Classica Tarda, come per esempio “El Castillo”, una piramide con un tempio che include una torre rotonda, elemento raro nelle architetture della regione costiera. Sperduti nella foresta si trovano resti di templi e di altari e diversi edifici con colonne, tutti in fase di esplorazione e restauro. [33361] I primi Spagnoli a giungere sulle coste del Messico, e precisamente nel Quintana Roo, furono dei naufraghi, portati dalla corrente tra l’Isola di Cozumel e Tulum. Era l’anno 1512 e sulla costa vivevano varie tribù maya ormai mescolate a gruppi di popolazioni immigrate da altre regioni. Dei venti marinai naufragati solo due riuscirono a sopravvivere, Jerónimo de Aguilar e Gonzalo Guerrero, mentre gli altri vennero catturati e sacrificati sugli altari. Entrambi furono resi schiavi dagli Itzá, ma il loro destino sarà diverso: Aguilar rimarrà schiavo del governatore di Tulum, mentre Guerrero riuscirà a scappare dalla prigonia e a rifugiarsi a Chetumal presso una tribù nemica. Avendo convinto il governatore locale delle sue capacità strategiche, Guerrero farà carriera come consulente militare, sposerà una nobile indigena e adotterà i costumi maya, facendosi tatuare, forare i lobi delle orecchie ed il naso e vivrà tra gli Indios come uomo rispettabile. Sette anni dopo Hernán Cortés approda sull’isola di Cozumel e viene a conoscenza che due Spagnoli vivono in terra maya: Aguilar sarà rintracciato e - dopo aver giurato di non aver mai abbandonato la fede cristiana - diventerà l’interprete di Cortés. Diversamente, Guerrero si terrà alla larga dagli Spagnoli, sapendo che come “indio” non sarà mai perdonato, e continuerà a lottare a fianco dei Maya fino alla morte che lo sorprenderà durante una battaglia tra le tribù dell’Honduras e gli Spagnoli. [3341] La configurazione dello Yucatán come singolo stato appartenente alla Federazione messicana è un’invenzione della storia moderna: in passato tutte le regioni sud- orientali venivano indicate semplicemente come Penisola dello Yucatán. I Maya - non a torto considerati una delle più complesse e affascinanti culture precolombiane - si insediarono qui fin dal Primo Periodo Classico, separando quella regione in Terre Basse e Terre Alte e distinguendo quindi gli altipiani dalla pianura tropicale. Nello Yucatán, tra le colline Puuc, nacquero tra il VI e il IX secolo dei grandi centri urbani e cerimoniali come Uxmal e Labná, mentre, dopo la grande crisi politico-sociale del X secolo, vennero rinnovate alcune città antiche come Chichén Itzá o fondate nuove capitali come Mayapán. Gli Spagnoli credettero che lo Yucatán fosse un’isola e soltanto la graduale penetrazione dei Conquistadores alla metà del XVI secolo permise loro di correggere l’errore. [33411] Kabáh, il cui nome era iscritto nell’antico libro delle cronache “Chilam Balam”, era un importante centro maya collegato a Uxmal da un grande “sacbé”, la tradizionale “strada bianca” che passava attraverso un arco monumentale segnando l’accesso ai luoghi di culto. Il complesso architettonico più spettacolare è certamente il “Codz-Poop”, un nome maya-yucateno che significa “stuoia arrotolata” ed è probabilmente riferito al naso ricurvo del Dio della Pioggia, Chaac, che orna la facciata con 250 maschere, composte ognuna da trenta pietre intagliate. L’edificio in stile “Puuc” appare sovraccarico di decorazioni denotando l’influenza dell’architettura “Chenes”. L’esatta funzione del “Codz-Poop” non è del tutto chiara, anche se recentemente sono state scoperte nel retro del palazzo alcune statue di guerrieri e diversi glifi con simboli cosmologici. Sulla stessa piattaforma del “Codz-Poop” si trova il “Palazzo” (o “Teocalli”) costruito in puro stile “Puuc” - con fascie di doppie colonne sulla facciata e pilastri nei vani delle porte - e dotato di altari e numerosi ambienti interni distribuiti su due piani. Nelle stesso stile venne eretto anche il “Tempio delle Colonne” che possiede nella parte alta grandi pannelli di colonne inseriti tra cornici sporgenti. [33421] Continuando il viaggio tra le colline Puuc si incontra Sayil, una città maya del Classico Tardo su cui si hanno pochi dati. Doveva trattarsi comunque di un luogo importante visto che possiede una serie di sontuosi edifici, decorati con grande maestria come il semisommerso “Mirador”, un tempio collegato da un rettilineo “sacbé” al grande palazzo del centro cittadino. Un’imponente gradinata porta alle terrazze che formano i tre piani sovrapposti del “Palazzo”, decorato con lunghe file di semicolonne, caratteristiche dello stile “Puuc”, con due pilastri sormontati da capitelli che segnano le porte del secondo piano e con una serie di maschere di Chaac, composizioni zoomorfe e rilievi del “Dio Discendente”, posti ad intervalli regolari. Le colonne di pietra sono scolpite a somiglianza dei pali di legno che sostenevano il tetto delle capanne. [33431] Anche la storia di Labná è praticamente sconosciuta, eppure la città possiede grandiosi edifici sparsi su un vasto territorio dove sono state ritrovate numerose cisterne - i “chultúnes” - e ciò fa supporre che il luogo fosse densamente popolato. Il gigantesco “Palazzo” mostra tutti gli elementi classici dello stile “Puuc” ed è formato da un edificio centrale e da due corpi avanzati costruiti sopra una terrazza artificiale. La parte bassa è scandita da fasce di tre semicolonne, mentre la parte alta è decorata con maschere di Chaac, composizioni geometriche e simboli cosmologici. Su uno degli angoli arrotondati si notano le fauci di un serpente dalle quali emerge la testa di un essere umano, simboli delle divinità dell’Acqua e della Fertilità. Un ampio “sacbé” collega il “Palazzo” alla piramide del “Mirador” che domina l’”Arco di Labná” dalla “falsa volta” maya, affiancato da due ambienti laterali. Sulla fascia superiore sono scolpite due nicchie nella forma tipica delle capanne dei Maya, costruite con tronchi d’albero e un tetto spiovente di foglie essiccate, come ancora oggi si possono vedere nei villaggi. [33441] Mayapán significa “vessillo dei Maya” e fu l’ultima capitale maya del Messico. Nell’XI secolo lo Yucatán era dominato da tre gruppi emergenti, gli Itzá a Chichén Itzá, gli Xiú a Uxmal ed i Cocom a Mayapán. Le rivalità tra i tre regni si accentuarono nel XIII secolo e, secondo le cronache del “Chilam Balam”, i padroni di Mayapán riuscirono a rovesciare la signoria di Chichén Itzá, affermando così la propria supremazia su quel territorio. Mayapán venne costruita nel segno del “serpente piumato” Kukulkán e la disposizone degli edifici fa pensare ad una Chichén Itzá di dimensioni minori: il centro cerimoniale comprende la Piramide di Kukulkán, il Tempio dei Guerrieri con sale colonnate, un Tempio del Pianeta Venere, un “Caracol” che serviva da osservatorio astronomico e un Cenote Sacro. Su alcuni edifici si trovano notevoli rilievi in stucco e resti di pitture. Il potere dei governatori di Mayapán venne spezzato in maniera violenta, così come era nato: nel 1441 i nobili della città, stanchi della tirannia della dinastia Cocom, si allearono con il gruppo Xiú e uccisero l’ultimo sovrano insieme a tutta la sua famiglia. Da allora lo Yucatán rimase preda della guerra civile, durante la quale sedici piccoli regni rivali si combatterono ferocemente. [33451] Nel 1524, sulla scia dei frati Domenicani - considerati i “pionieri” della conversione degli Indios - giungono in Messico i primi dodici religiosi dell’Ordine dei Francescani, dapprima attivi nell’altopiano centrale ed in seguito nello Yucatán. Il loro fervore e la durezza con la quale procedettero all’evangelizzazione appare evidente dalle chiese-fortezze che essi costruirono nei luoghi strategici della conquista, a Muna, Sotuta, Yaxcabá, Tabi, Izamal e Teabo. I Francescani erano insieme predicatori, politici, architetti e giudici: nelle cronache vengono ricordati i violenti “autodafé” ed i metodi inquisitori dei frati, che suscitarono scompiglio e disperazione tra la popolazione tanto che gli indigeni preferivano suicidarsi che vivere nel terrore. Rimase celebre l’“atto di fede” del Vescovo Diego de Landa, prezioso osservatore e cronista della civiltà indigena, ma anche implacabile nemico dei culti pagani, colui che diede alle fiamme tutti gli antichi Codici maya. Questo rogo avvenne nella piazza antistante la chiesa di Maní - la città porta il nome profetico “è tutto finito” - che era diventata l’ultima sede dei governanti maya Xiú dopo la distruzione di Mayapán, i quali si erano alleati con il conquistatore Francisco de Montejo, convertendosi al cristianesimo. [33461] La chiesa ed il convento di San Bernardino Sisal a Valladolid può dare un’idea della potenza dell’Ordine dei Francescani nello Yucatán. Fondato nel 1552 tra due “cenotes” maya e terminato nel 1560, il complesso religioso venne concepito in maniera da risultare del tutto autosufficiente: la chiesa, il chiostro e il convento erano costruiti con possenti mura che li facevano assomigliare ad una fortezza, le parti alte dell’edificio sembravano torri di avvistamento, i vasti orti erano recintati e irrigati con l’acqua dei pozzi e delle cisterne, anch’esse protette da muri all’interno del convento. Il battistero era in origine una “cappella all’aperto”, il luogo deputato alla predicazione per non costringere i restii Indios ad entrare in chiesa. [33471] La regione collinosa di Puuc, nello Yucatán settentrionale, ha dato il suo nome allo stile architettonico-decorativo dei monumenti sorti in questa regione. Data la scarsità delle piogge, la vegetazione non è riuscita a sommergere completamente le antiche rovine, per cui le città maya hanno potuto conservare in buono stato gran parte dei loro edifici. Caratteristiche delle stile “Puuc” sono le lunghe costruzioni a pianta rettangolare innalzate su terrazze artificiali, che talvolta si uniscono a formare dei grandi complessi “a quadrilatero” con una corte centrale a cielo aperto. La decorazione dei palazzi e dei templi, sebbene risenta dell’influenza della vicina regione Chenes, si alleggerisce limitandosi alle sole parti superiori delle facciate, al di sopra delle porte. Lunghe fasce orizzontali sono ornate da mosaici di pietra a disegni geometrici, intervallati da maschere di Chaac, da figure antropomorfe e zoomorfe e da colonnette puramente decorative. Anche se lo stile “Puuc” sembra sia iniziato già nel VI sec.d.C., la sua massima diffusione e il suo grande splendore vengono raggiunti intorno all’XI secolo, nel periodo Postclassico, quando vengono creati i grandi complessi palaziali di Uxmal. [3371] Per la conoscenza della civiltà maya sono indispensabili due libri, scritti in tempi diversi e con intenti differenti. Il Popol Vuh (da “Vuh”, libro, e “Poop”, stuoia, cioè “Libro di coloro che siedono sulle stuoie” o “Libro del Consiglio”) è il testo sacro dei Maya Quiché del Guatemala ed è la trascrizione in lingua quiché a caratteri latini di un antico libro geroglifico perduto già prima della conquista spagnola e perciò trasmesso per via orale. Il Popol Vuh raccoglie la mitologia, la genesi e la storia del popolo Quiché, nonché le testimonianze delle migrazioni e dei contatti con le culture olmeca, tolteca e maya yucatena. All’epoca della stesura, alla metà del XVI secolo, il popolo Quiché era già stato conquistato dagli Spagnoli e la dottrina cristiana aveva piantato le prime radici. “Scriveremo ormai sotto la legge di Dio, il Cristanesimo” - afferma l’autore indio - “lo trarremo in luce perché non si vede più il Popol Vuh.” Nei primi anni del Settecento, il frate domenicano Francisco Ximénez riceve dagli Indios il sacro libro fino ad allora gelosamente nascosto, che trascriverà in lingua quiché e tradurrà in spagnolo, censurando però alcune parti che non gli sembravano compatibili con la fede cristiana. I libri del Chilam Balam sono invece una raccolta di cronache maya in dodici quaderni, di cui otto - i libri di Chumayel, Tizimín, Káva, Ixel, Tekax, Nah, Tusik e il Codice Peréz di Maní - sono stati tradotti e studiati. I libri furono redatti in lingua maya yucatena nel XVI secolo, dopo la conquista spagnola, e contengono testi di carattere religioso, storico, cronologico e profetico. L’influenza spagnola e le conoscenze scientifiche acquisite dopo la conquista appaiono chiaramente da numerose trattazioni che riguardano gli studi di astronomia ed i testi letterari. Le testimonianze religiose e storiche provengono invece dalle antiche fonti orali maya-yucatene. Il nome trae origine da “Chilam”, un titolo che veniva dato ai sacerdoti che interpretavano le volontà divine e che significa “colui che è bocca”, mentre “Balam” era il nome di un sacerdote di Maní, vissuto poco prima della conquista e celebre per le sue profezie, tra cui quella sull’arrivo degli spagnoli. [3381] Il primo che cercò di decifrare la scrittura maya fu il vescovo spagnolo Diego de Landa alla metà del XVI secolo, ma dovranno passare tre secoli prima che vengano avviati rigorosi studi scientifici per comprendere gli antichi glifi. Alla fine dell’Ottocento gli studi vertono intorno ai superstiti Codici maya (attualmente se ne conoscono quattro, tutti redatti in epoca postclassica), ma la difficoltà maggiore derivò dal fatto che gli studiosi cercavano di interpretare quei testi basandosi sul sistema sillabico e fonetico occidentale. In realtà il sistema di scrittura maya è un sistema misto, in parte ideografico e in parte fonetico, come comprese il russo Yuri Knorosov negli anni Cinquanta, il quale pubblicò anche le basi per una grammatica dei geroglifici maya. Per esempio il suono “Ta” può avere più significati (avvoltoio, torcia o fascio di bastoni) e quindi ogni concetto avrà un proprio glifo ideografico, ma uno stesso glifo sillabico. Un’altra rivoluzione nello studio della scrittura e della storia maya venne condotta dagli epigrafisti Heinrich Berlin e Tatiana Proskouriakoff che, lavorando in siti diversi (Berlin a Palenque e la Proskouriakoff a Piedras Negras), giunsero alle stesse conclusioni: i numerosissimi glifi presenti su stele ed edifici raccontavano la storia del popolo Maya, descrivendo re, battaglie, sacrifici ed ogni aspetto di quel mondo, mentre fino ad allora si era creduto, basandosi solo sui Codici, che i Maya fossero una popolazione pacifica, dedita esclusivamente ai calcoli astronomici e calendariali. Attualmente è stato decifrato più dell’80% dei glifi maya, grazie anche all’intenso lavoro dello statunitense David Stuart. Poter interpretare ciò che i Maya hanno lasciato scritto sulle loro pietre non è un puro esercizio accademico, ma come dice la storica messicana Maricela Ayala Falcón: “Ora conosciamo gli antichi governanti e di molti non sappiamo soltano il loro nome, ma anche che faccia avevano, conosciamo la loro origine, le loro opere, quello che edificarono, contri chi combatterono, con chi si allearono, i trucchi che impiegarono per proteggere il proprio diritto a governare, dove furono sepolti; e alla fine hanno smesso di essere figure mitologiche per trasformarsi in esseri umani”. [3391] La matematica e l’astronomia erano le scienze nelle quali i Maya eccellevano. L’Universo era rappresentato dalla “Ceiba”, l’”Albero Cosmico”: al di sopra dell’Albero vi era il Cielo, simboleggiato da un uccello-serpente piumato che regolava l’ordine della natura e del cosmo; la corona dell’Albero segnava il punto di contatto tra gli uomini e gli Dei; all’altezza del tronco si trovava la terra e tutto ciò che riguardava le vicende umane, mentre le radici affondavano nell’Inframondo (“Xialba”), abitato dai nove “Signori della Notte” (“Bolon-ti-ku”). Ai quattro punti cardinali, ognuno caratterizzato da un colore (bianco per il nord, giallo per il sud, rosso per l’est e nero per l’ovest) veniva aggiunto un quinto punto, quello centrale, di colore verde o blu. Secondo la genesi del “Popol Vuh”, il Dio-creatore unico “Hunak-Ku” pose sui quattro angoli del mondo i suoi quattro figli - i “Bacab” - per sorreggere l’universo. La terra, invece, veniva rappresentata da un guscio di tartaruga. Per misurare il tempo i Maya utilizzavano tre sistemi calcolati tramite le osservazioni delle ricorrenze cicliche degli equinozi, dei solstizi, delle eclissi, del passaggio zenitale del sole, della posizione degli astri e delle fasi lunari. Su questa base avevano elaborato un Calendario Rituale (“tzolkin”) di 260 giorni, composto da cicli di 20 giorni rappresentati da glifi e da 13 cifre, ed un Calendario Solare (“haab”) di 365 giorni, suddivisi in 18 mesi di venti giorni ciascuno, più un breve periodo di 5 giorni nefasti (“uayeb”), chiamati “giorni sospesi” o “perduti”. La combinazione di questi due calendari veniva incisa con glifi e segni numerici su una “ruota calendaria”. Inoltre i Maya utilizzavano il cosiddetto “Conto Lungo”, probabilmente inventato dagli Olmechi e perfezionato dai matematici maya. La base del sistema numerico era vigesimale con l’ausilio dello Zero. Le cifre inferiori a 20 erano rappresentate da pallini fino al numero 5, che era invece designato con una barra, mentre il 20 era raffigurato da un glifo a forma di conchiglia o di fiore stilizzato. Tuttavia i numeri da 0 a 20 erano rappresentati anche da glifi a forma di volti, mentre i 18 mesi e i cinque giorni “eccedenti” del ciclo annuale - ognuno designato con un nome proprio - venivano trascritti con glifi di immagini stilizzate. I periodi del “Conto Lungo” - che copriva 5125 anni, cioè l’intero ciclo della storia secondo il punto di vista maya - erano sempre raffigurati da glifi e suddivisi in “Tun” (l’intero anno solare, senza però calcolare i cinque giorni “sospesi”), composto a sua volta da diciotto “Uinal” (il ciclo di 20 giorni). Sommando 20 “Tun” veniva raggiunta l’unità di un “Katun” che, moltiplicato ancora una volta per venti, diventava un “Baktun” (400 anni maya). Un’era maya era composta da 13 “Baktun” e gli epigrafisti - trascrivendo i glifi con i loro coeficienti in numeri arabi - hanno potuto calcolare che, secondo il “Conto Lungo”, i Maya stabilirono l’inizio della loro storia l’11 agosto del 3114 a.C. e pensavano che sarebbe terminata il 21 dicembre dell’anno 2012 della nostra era. La fine di quella grande e antica civiltà arrivò però prima del previsto: nell’anno 1517 sbarcarono sulle coste dello Yucatán i primi Spagnoli. [3351] Un mosaico di popoli si era stabilito nelle regioni intorno a Città del Messico, costruendo città e centri cerimoniali sulle rive dei laghi, ai piedi dei vulcani e sulle aride terre delle montagne. Dopo la fine della cultura di Teotihuacán, tre luoghi erano emersi su tutti gli altri: Tula la grande metropoli dei Toltechi, Cholula che vide l’influenza di Mixtechi e Toltechi, e Tzintzuntzan, la capitale del regno dei Taraschi. L’altopiano centrale del Messico fu da sempre meta di migrazioni di popoli nomadi che muovevano da settentrione in cerca di migliori condizioni di vita. Una di queste popolazioni furono i “Mexica”, o Aztechi, che nel XIV secolo si insediarono stabilmente nella Valle di Texcoco e fondarono un impero di enormi proporzioni, riscuotendo pesanti tributi dai regni vassalli. Dopo la distruzione della capitale azteca, Tenochtitlán, da parte dei Conquistadores, le regioni limitrofe a Città del Messico vennero sottomesse alla Corona Spagnola e presto si moltiplicarono i pueblos coloniali e le missioni cristiane. [33511] Tula, il cui nome significa “luogo dove crescono i giunchi”, fu la potente capitale dei Toltechi e la patria del sovrano divinizzato Quetzalcóatl. Abitato da indios Otomí e nomadi Chichimechi provenienti da nord, il sito viene raggiunto intorno all’VIII sec.d.C. dai Nonoalchi, una popolazione che veniva dalla Costa del Golfo e che fondò il primo insediamento urbano, conosciuto oggi come “Tula Chico”, la “piccola Tula”. Il nome “Tolteca”, che significa “maestri costruttori”, venne dato loro dagli Aztechi, grandi ammiratori di quella civiltà, della quale essi stessi - così affermavano - erano i discendenti. In effetti i Toltechi avevano creato un’architettura vigorosa con possenti piattaforme e templi, colonne serpentiformi, pilastri istoriati e statue di guerrieri simili ad “atlanti”, alte quasi cinque metri, che sorreggevano il tetto del “Tempio della Stella del Mattino”, dedicato a Quetzalcóatl, fondatore della Grande Tula nell’anno 968. Popolo guerriero, i Toltechi ornarono i loro edifici con figure di giaguari e aquile, posero nei templi le statue dei Chac-Mool e iniziarono i sacrifici umani su vasta scala: tutti elementi lasciati in eredità agli Aztechi. Lotte intestine tra i vari gruppi di potere portarono al crollo di Tula: nel 1125 un violento incendio devastò la città e la popolazione fu costretta a fuggire verso sud, fino a Chichén Itzá nello Yucatán. Nei secoli seguenti nessuno riuscì ad individuare la capitale dei Toltechi descritta nelle cronache azteche e quando, alla fine dell’Ottocento, lo studioso Désiré Charnay esplorò le rovine, sembrò una scoperta senza importanza. Soltanto nel 1938 Tula venne riscoperta da Wigberto Jiménez Moreno e poi scavata sistematicamente sotto la direzione dell’archeologo messicano Jorge Acosta. [33521] Xochicalco, la “casa dei fiori”, si trova a sud di Città del Messico ed ebbe il suo apogeo tra il VII e l’VIII secolo, dopo il tramonto di Teotihuacán. Il Tempio principale, di cui è rimasta soltanto la piattaforma base, si trovava sulla “Piramide di Quetzalcóatl”, decorata con preziosi rilievi che raffigurano il “serpente piumato”. Xochicalco era il luogo dove si riunivano i sacerdoti astromomi per studiare l’arrivo del “Fuoco Nuovo”, la data che segnava l’inizio del nuovo ciclo calendariale di 52 anni. Negli edifici sono state trovate numerose stele scolpite con immagini associate al Dio della Pioggia, Tlaloc, e al Dio benefico Quetzalcóatl, che rivelano influenze stilistiche zapoteche, totonache e azteche. Nel Campo del Gioco della Pelota è stata rinvenuta una rara scultura di “guacamaya”, un uccello legato al Culto del Sole e alla cosmogonia religiosa. [33531] La più grande piramide del Messico - alta più di 60 metri - sorge a Cholula, un luogo abitato fin dal IV sec.a.C. che si sviluppò contemporaneamente a Teotihuacán. La gigantesca mole dell’edificio può essere scambiata oggi per una semplice collina sulla quale svetta la chiesa di Nuestra Señora de los Remedios e gli archeologi hanno dovuto scavare più di novemila metri di gallerie per ritrovare i sette strati che componevano la piramide. Cholula era un importante emporio per il commercio dell’oreficeria mixteca e per la lavorazione delle piume e possedeva una miriade di templi - Hernán Cortés ne contò 400 - venerati da Toltechi e Aztechi. La “visita” che gli Spagnoli fecero a quella città rimase tristemente famosa negli annali: Cortés fu ricevuto con tutti gli onori, ma - ingannato dagli informatori e credendosi in trappola - ripagò la cortesia con una strage, massacrando gli abitanti e distruggendo la città. Dopo la Conquista giunsero a Cholula i frati francescani e la città venne ricostruita, dotandola al posto dei templi di altrettanti santuari cristiani: secondo la cronaca vi furono erette 365 chiese, una per ogni giorno dell’anno, di cui oggi ne rimangono circa quaranta, edificate in uno stile barocco-coloniale che ricorda negli elementi scultorei il fervore religioso delle prime conversioni. [33541] Sul “Cerro de los Idolos”, il colle che sovrasta Malinalco, gli Aztechi fondarono un importante centro cerimoniale scavato nella roccia, raro esempio in Messico di architettura rupestre. Il luogo venne occupato dagli Aztechi nel 1476 dopo violente battaglie con i principati locali per la supremazia nella Valle di Toluca. Nel 1501 il sovrano Ahuitzotl fece iniziare i lavori di taglio nella roccia che vennero proseguiti dal grande Moctezuma II e che non erano ancora terminati all’epoca della Conquista spagnola. Il Tempio più importante era il “Cuauhcalli”, la “Casa dell’Aquila”, dedicato al Sole e destinato alla consacrazione delle confraternite militari, i “Cavalieri dell’Aquila” e quelli del “Giaguaro”. L’interno del Tempio era di forma circolare con al centro una statua di aquila che veniva illuminata dai raggi del sole nel giorno del solstizio d’inverno. Tra i vari edifici che compongono il “Cerro de los Idolos” si trova lo “tzincalli”, un tempio dove venivano inceneriti i “messaggeri del Sole”, i valorosi guerrieri morti in battaglia le cui anime si trasformavano in stelle. Dopo la Conquista, a partire dal 1537, i padri Agostiniani edificarono numerose chiese e monasteri nella regione, tra cui il convento di San Salvador a Malinalco, eccellente esempio dell’arte austera di quella confraternita che spesso decorava i suoi santuari con pitture monocrome a fini didattici. [33551] Sulle sponde di un grande lago del Michoacán, in una terra costellata da vulcani spenti, sorge Pátzcuaro, “il luogo delle pietre templari”, la città che in passato aveva fatto parte della triplice Lega del regno dei Taraschi, insieme a Tzintzuntzan e a Ihuatzio. Pátzcuaro non ha conservato nulla delle sue antiche pietre: la città ha un aspetto puramente coloniale, con vaste piazze porticate e grandi palazzi come la “Casa degli Undici Patii”, un ex-convento trasformato oggi in Centro delle Arti e delle Tradizioni Popolari. Il Lago di Pátzcuaro è famoso per il tipo di pesca che vi viene praticato: su barche piatte intagliate nei tronchi d’albero i pescatori dell’isola di Janitzio lanciano le “uiripos”, le “reti a farfalla”. Tutt’intorno al lago vi sono piccoli villaggi caratteristici con case dai pilastri di legno finemente intagliati. [33561] Tzintzuntzan, “il luogo dei colibrì”, era una delle capitali della Lega Tarasca, creata nel XIV secolo dal re Tariácuri che era riuscito a riunificare le tribù della regione. Su una grande terrazza artificiale che domina il Lago di Pátzcuaro si erge una piattaforma rettangolare, lunga quasi mezzo chilometro, con cinque “Yacatas”. Le “Yacatas” sono strutture circolari costruite con pietre piatte incastonate le une sulle altre che servivano a sostenere i templi, anch’essi rotondi e protetti da un tetto conico ricoperto di foglie di palma. Le “Yacatas” erano rivestite da lastre di pietra vulcanica ed erano intervallate da scalinate che portavano sulla cima. Ai piedi di uno dei basamenti ellittici sono state scoperte due tombe con scheletri di uomini e donne, sepolti insieme a ornamenti di ossidiana e rame e pipe di terracotta: queste ultime erano oggetti in uso soltanto presso i Taraschi e probabilmente ereditati dalle popolazioni delle terre settentrionali con le quali intrattenevano rapporti di scambio. [33571] La terza capitale dei Taraschi era Ihuatzio, il “luogo del coyote” in cui sorgeva un ampio centro cerimoniale, cinto da imponenti fortificazioni con camminamenti. Nella città venivano venerati gli Dei più importanti dei Taraschi: il Dio del Fuoco “Curicaueri”, la Madre Terra “Cuerauáperi”, il Padre Sole “Tata Uriata” e la Madre Luna “Nata Cutzi”. Durante le esplorazioni del vasto sito, gli archeologi hanno rinvenuto i resti di tre basamenti circolari di templi (le “Yacatas”), un’altra struttura rotonda che forse serviva da osservatorio astronomico e due possenti piattaforme gemelle che si stagliano contro il cielo e le acque argentee del Lago di Pátzcuaro. [33581] Gli altipiani del Michoacán sono costellati di vulcani spenti, ma talvolta se ne generano di nuovi: l’ultima “nascita” è avvenuta il 20 febbraio del 1943, quando un contadino - del quale si ricorda anche il nome, Dionisio Pulido - ha visto la terra spaccarsi davanti ai suoi occhi e uscire fumo e cenere dalle zolle del campo. Il contadino spaventato fuggì, ma riuscì a dare l’allarme ai villaggi vicini. Il vulcano - chiamato poi Paricutín, “ciò che è davanti a noi” - emerse dalle viscere della terra raggiungendo in poco tempo 410 metri di altitudine, mentre le eruzioni laviche durarono dieci anni, seppellendo villaggi e campi, ma senza fare vittime umane. Oggi il vulcano, con la sua mole nera, si erge in mezzo ad un paesaggio lunare, continuando a gemere di tanto in tanto. I villaggi sommersi possedevano dei monumenti pregevoli, come si può vedere dalla Parrocchiale di Santiago Apostolo di Angahuan - l’unico borgo superstite della zona - e dai campanili barocchi di una chiesa, miracolosamente sopravvissuti in mezzo al campo di lava e diventati meta di pellegrinaggio per le popolazioni vicine. Uomini, donne, bambini, vecchi e malati affrontano il difficile cammino tra le masse spigolose di lava per pregare e cantare davanti ad un altare rimasto incastrato tra le nere rocce: sono scene di un tale fervore religioso che sembra siano uscite da un film di Buñuel, il grande regista vissuto a lungo in Messico. [33591] L’altopiano dello Stato di Hidalgo era anticamente abitato da popolazioni Otomí, Nahua e Huastechi che vennero poi sottomesse dagli Aztechi nel XV secolo. È una terra ricca di miniere d’argento, rame, oro, mercurio, piombo e zinco, ampiamente sfruttate dai primi colonizzatori spagnoli. Ancora oggi le cittadine dell’Hidalgo, come ad esempio Zimapán, mostrano i segni della passata ricchezza dei dominatori. Nel cuore della città, in posizione elevata, furono erette chiese maestose per attirare e tenere sotto controllo la popolazione che altrimenti viveva in piccoli nuclei sparsi sulle montagne. All’epoca spagnola risalgono anche alcune grandiose opere pubbliche, come l’acquedotto del padre agostiniano Tembleque, costruito tra il 1554 e il 1571 e che stende i suoi giganteschi archi per 45 chilometri attraverso le aride terre della regione. [33601] Antica capitale degli indios Otomí, Ixmiquilpan venne raggiunta dai missionari spagnoli nel 1550 che vi fondarono la chiesa di San Michele Arcangelo - uno dei più interessanti edifici religosi degli Agostiniani - costruita in stile rinascimentale con reminiscenze plateresche. Nel 1960 vennero scoperti, sotto l’intonaco bianco, dei meravigliosi affreschi policromi che raffigurano guerrieri indigeni in lotta con esseri mitologici, unico esempio di questo genere nella pittura religiosa. Non è ancora stato chiarito se il ciclo voglia rappresentare storie bibliche o cristiane espresse con un linguaggio iconografico comprensibile agli indigeni, o se si tratti invece di una narrazione india che ha trovato spazio tra le mura di una chiesa. Certo è che l’autore dei dipinti doveva essere un artista che ben conosceva le tradizioni precolombiane. [33611] Terra di forti contrasti tra aride catene montuose e fertili valli, il Querétaro è sempre stato di difficile accesso per chiunque volesse dominarlo: vi abitavano gruppi di indios Otomí e di agguerriti Chichimechi che spesso scendevano a valle e distruggevano le missioni agostiniane appena create dopo la Conquista. Nel Settecento vennero inviati nella regione i frati Francescani con lo scopo di pacificare le tribù indigene e di convertire una popolazione assai ribelle e poco attratta dal messaggio cristiano. Gli Indios continuavano infatti a venerare le loro divinità telluriche e a mantenere il culto delle anime dei defunti che, secondo le loro credenze, vagavano tra gli esseri umani seminando il terrore. I Francescani costruirono nelle valli una fitta rete di missioni, utilizzando la manodopera indigena e lasciando che elementi delle tradizioni popolari affiorassero tra i simboli cristiani. [33621] La chiesa di San Giacomo di Jalpan è una delle cinque missioni realizzate dai Francescani nella Sierra Madre orientale. La costruzione venne iniziata nel 1751 al posto di un edificio agostiniano ormai distrutto e smantellato. La facciata barocca è certamente opera di scalpellini e artisti indigeni e mostra una serie di figure di santi e simboli cristiani di fattura popolare ma di grande pregio. Negli ornamenti predominano gli elementi vegetali, mentre le figure umane sono viste come ibridi che si fondono con simboli zoomorfi e antropomorfi. [33631] Nella Valle della Sierra Gorda, in cima alla cittadina di Landa de Matamoros, venne eretta nel 1745 la chiesa di San Domenico e San Francesco che rappresenta il monumento per eccellenza alla fede, alla caparbietà e alla ferrea volontà dei frati Francescani. La facciata barocca della chiesa, dipinta in un luminoso colore rosso, è sovraccarica di figure e simboli, eseguiti con mano esperta da artisti indigeni in collaborazione con i missionari. Le scene, che raffigurano Santi, angeli e la passione di Cristo, sono narrate con una vivacità inusuale e con grande realismo e ricordano le pagine di un libro miniato. Il chiaro-oscuro delle nicchie, delle cornici e dei capitelli fa risaltare le singole figure nei loro atteggiamenti ieratici ed ispirati che sono propri della cultura religosa popolare, ma non per questo di minore valore artistico. [33642] La storia dei Toltechi è un intreccio di leggende e realtà che ci sono state tramandate dagli Aztechi, grandi estimatori di quella popolazione di cui ammiravano l’arte e l’architettura. La civiltà tolteca si era sviluppata negli altipiani centrali nel periodo di transizione tra la cultura di Teotihuacán e l’arrivo degli Aztechi, tra il IX e il XII secolo, ed era composta da un lato da gruppi d’origine chichimeca di ceppo nahua, e dall’altro da Nonoalchi provenienti dal Golfo del Messico e cultori di Quetzalcóatl. Questo nuovo popolo così costituito creò il primo sistema imperiale, basato sull’espansione del proprio territorio e sulla riscossione dei tributi. [33641] La loro capitale, Tula (chiamata dagli Aztechi “Tollán”, “metropoli”), venne fondata presumibilmente nel 968 della nostra era, ma qui iniziano a sovrapporsi i fatti storici al mito: le antiche cronache raccontano che il capo nonoalco Mixcóatl (“serpente del cielo”), fondatore della dinastia dei Toltechi, giunge nella valle di Anáhuac e sposa la principessa Chimalma (“scudo giacente”) che nel 947 dà alla luce Ce Ácatl Topiltzin (“Signore Uno Canna”) che diventerà re e fonderà Tula. Egli stesso si riconosce come reincarnazione di Quetzalcóatl (“serpente piumato”), il Dio che dispensa ogni bene agli uomini. Dopo vent’anni di regno, Quetzalcóatl viene spodestato dal suo rivale Tezcatlipoca (“specchio fumante”, nonché Dio della Guerra, colui che introduce il sacrificio umano presso i Toltechi), ed è costretto a fuggire con il suo popolo a Cholula, dove giunge nel 987. Quetzalcóatl è l’ultimo re teocratico dei Toltechi, d’ora in poi governati soltanto da sovrani-guerrieri. Anche da questa città viene cacciato ed inizia così la diaspora degli esuli Toltechi che dapprima migrano verso la costa del Golfo, a El Tajín, ed in seguito approdano sulla costa dello Yucatán dove partecipano alla rinascita di Chichén Itzá. Secondo altre fonti, Quetzalcóatl si dà fuoco trasformandosi nel pianeta Venere, oppure prende il mare su una zattera di serpenti, promettendo di tornare un giorno sulla terra quando riporterà la prosperità agli uomini. Quest’ultima leggenda è alla radice dell’equivoco creato dall’arrivo per mare di Cortés, che viene confuso in un primo momento con il risorto Quetzalcóatl. [33652] I Taraschi (che chiamavano se stessi Purépecha, “quelli delle terre pescose”) riuscirono a resistere a tutti gli assalti degli Aztechi, grazie alle loro città fortificate e alla ferrea disciplina militare, ma anche grazie al possesso di armi in rame e ferro, metalli che estraevano dalle numerose miniere del Michoacán. [33651] I Taraschi, di origini misteriose, erano nomadi guerrieri e parlavano un linguaggio con reminiscenze affini alle lingue maya-totonaca, quechua e zuni. La massima divinità era Curicaueri, il Dio del Fuoco e del Sole, al quale venivano offerti sacrifici umani come testimoniano alcune statue di Chac-Mool trovate nei templi. Il fondatore della civiltà dei Taraschi fu il re Tariácuri che, all’inizio del XIV secolo, riuscì ad unificare le diverse tribù e stabilì la sua capitale a Pátzcuaro, sull’omonimo lago. Alla sua morte il regno venne diviso tra i figli e venne creata l’invincibile Lega Tarasca di Pátzcuaro, Ihuatzio e Tzintzuntzan che riuscì a respingere tutte le aggressioni degli Aztechi che ripetutamente avevano tentato di impadronirsi delle ricche miniere. Con l’arrivo degli Spagnoli i Taraschi si vestirono di stracci - come era loro costume all’atto della sottomissione - e vennero per questo chiamati col nome dispregiativo “Caltzontzin”, “sandali rotti”. L’iniziale amicizia con gli Spagnoli finì nel 1530, quando il capitano Nuño de Guzmán seminò il terrore tra gli indios del Michoacán con stragi e massacri e uccise l’ultimo sovrano dei Taraschi Tangaxoan II, già battezzato con il nome di Don Francisco. Per sfuggire ai lavori forzati nelle miniere gli indigeni sopravvissuti si rifugiarono nelle montagne e soltanto nel 1540 la capitale Pátzcuaro venne ripopolata tramite l’opera benefica di Vasco de Quiroga, vescovo del Michoacán, che riuscì a guadagnarsi la fiducia degli Indios, creando collegi, ospedali e scuole di artigianato. [41] “Il Messico è così straordinario, che lá si sperimenta epidermicamente ciò che si è appreso dai libri” - scrisse il regista russo Sergeij Eisenstein - “ si giunge alla supposizione che il mondo nella sua età infantile, fatta di regale e indifferente indolenza e di potenza creativa al tempo stesso, debba essere stato come questi altipiani e queste lagune, questi deserti e queste sterpaglie; agli occhi di chi ha visto una volta la vastità del Messico questo paese appare come il giardino dell’Eden...proprio qui, fra il Golfo del Messico e Tehuantepec.” [4011] In Messico i colori della natura gareggiano con quelli dipinti dagli uomini. Non ci si stanca mai di ammirare le infinte sfumature del cielo dall’azzurro profondo al grigio-celeste, il candore delle maestose nuvole, il verde smeraldo delle foreste tropicali, il rosso delle pietre, i neri massi di lava e l’oro del sole: sono tutti colori e sensazioni cromatiche che si ritrovano nelle opere prodotte dall’uomo, negli oggetti artigianali, sui tessuti degli Indios e sulle facciate delle case. I vestiti dei contadini sono talvolta poveri, le case non sempre sono di architettura eccelsa, ma l’amore per i colori brillanti - scelti con cura e con un gusto per gli accostamenti fantasiosi e inusuali - fanno di ogni abito un’opera d’arte e di ogni casa una reggia. [4022] Il sacro “Gioco della Palla” - Pelota in spagnolo - è stato praticato da tutte le culture mesoamericane fin dall’alba dei tempi. I primi campi da gioco risalgono alla civiltà Olmeca, la più antica del Messico, e il rituale venne poi trasmesso ai Maya, agli Zapotechi, ai Totonachi e agli Aztechi. Le gare si svolgevano tra due giocatori o due squadre avversarie e, al termine della partita, i perdenti venivano sacrificati agli Dei mediante l’estrazione del cuore e per decapitazione. [4021] Il gioco era associato ad un’antica leggenda narrata nel libro dei Maya “Popol Vuh” che racconta il mito dei Gemelli Divini Hunahpu e Xbalanque: il loro padre aveva infastidito gli Dei dello Xibalba (il mondo sotterraneo), giocando per troppo tempo a palla con suo fratello e per punizione venne decapitato. Era riuscito tuttavia ad ingravidare una delle figlie degli Dei dell’Inframondo che in seguito diede alla luce due gemelli. Hunahpu e Xbalanque si vendicarono della morte del padre ricomponendo i resti del suo cadavere sepolto tra gli spalti del campo da gioco e combattendo contro gli Dei dello Xibalba per cacciarli per sempre dal mondo degli uomini. Il gioco è legato anche al culto del Sole che deve rinascere ogni giorno abbandonando le tenebre: il campo da gioco rappresenta la terra, mentre la palla simboleggia il sole, per cui il giocatore che lascia cadere la palla deve essere sacrificato perchè ha impedito al sole di sorgere di nuovo. Il campo da gioco - che in lingua náhuatl è chiamato “teotachtli” che significa “luogo sacro della pelota degli Dei” - poteva essere costruito a forma di T maiuscola, con alti spalti dalle pareti inclinate - come a Dainzù o a El Tajín - oppure delimitato da muri verticali come a Chichén Itzá. La palla era di resina gommosa, poco più grande di una nostra boccia, e doveva rimbalzare tra i giocatori che non potevano usare le mani, ma soltanto le natiche, i fianchi e i gomiti. I bersagli erano dischi di pietra o anelli fissati in alto sulle pareti laterali. A seconda della tradizione locale i giocatori erano vestiti con costumi particolari: gli Zapotechi portavano un casco a forma di testa di giaguaro, dei lunghi guanti, pantaloni corti, fasce di cotone e ginocchiere. Nella cultura di El Tajín - che possiede ben 14 Campi per la Pelota - la corazza protettiva era costituita da paracolpi sui fianchi, sul petto, sulle ginocchia e sui gomiti. Si suppone che alcuni oggetti di pietra, finemente scolpiti e rinvenuti in vicinanza dei campi, fossero legati al sarcificio finale, oppure rappresentassero simbolicamente alcuni elementi della corazza: i “jugos” - dei massicci “gioghi” che proteggevano il ventre (nella realtà i cinturoni erano fabbricati in cuoio o cotone); le “palmas”, a forma di ventaglio o foglia, che forse corprivano il petto, e le “hachas”, delle torce piatte scolpite con profili umani o animali, il cui uso è incerto. [4032] La cerimonia dei “Voladores” - “tocotines” in lingua totonaca - risale al periodo preispanico e veniva celebrata dalle popolazioni del Golfo - Huastechi e Totonachi - e dai Maya Quiché del Guatemala. Il rito, probabilmente legato al culto della fertilità, si è conservato fino ad oggi, poiché non venne proibito dai missionari spagnoli che credevano si trattasse di un semplice gioco acrobatico e non di una cerimonia religiosa. [4031] Cinque “Voladores” vestiti di bianco e di rosso, con un copricapo a punta ornato da frange d’oro e specchietti, si radunano verso il tramonto intorno ad un palo alto circa 20 metri e iniziano una danza al suono di un flauto di canna e di un tamburello. Mentre la musica continua gli uomini arrampicano in cima all’albero dove si trova una minuscola piattaforma girevole e qui, legati ai piedi da una fune, si gettano di spalle nel vuoto, allargando le braccia come ali di uccelli che si librano nell’aria, fluttuando lentamente e silenziosamente verso terra. Nei culti antichi i “Voladores” invocavano i quattro punti cardinali attirando su di sé gocce di pioggia e raggi di sole e - prima di atterrare - dovevano compiere 13 giri e 52 rotazioni riferite al Calendario Solare e al Ciclo “Secolare” degli Aztechi. In alcune occasioni i “Voladores” si travestivano con piume e maschere e durante il rito veniva sacrificato un prigioniero, colpito dalle frecce come gli uccelli. [4041] Dal Golfo all’Oceano Atlantico, dal Mar Caraibico all’Oceano Pacifico, tutte le coste del Messico sono esposte alla violenza degli uragani che si scatenano nei mesi estivi, ma nel resto dell’anno, tra novembre e maggio, le spiagge sono un paradiso di bellezze naturali per i turisti di tutto il mondo. [40411] La costa del Quintana Roo sul Mar dei Caraibi è la più amata dai subacquei che si inabissano nelle acque cristalline per scoprire le meraviglie della barriera corallina. Nel Periodo Classico e Postclassico la regione era densamente popolata dai Maya che resistettero tenacemente all’occupazione dei Conquistadores e di tutti gli stranieri che cercavano di impadronirsi di quelle terre. L’isola di Cozumel e la Isla Mujeres furono raggiunte nel lontano 1518 dagli Spagnoli, che però dovettero combattere aspre battaglie prima di poter colonizzare la vasta Penisola dello Yucatán. L’ultima resistenza maya risale alla metà dell’Ottocento, quando, durante la “Guerra delle Caste” tra bianchi, meticci e indigeni, i Maya riuscirono ad occupare la fortezza di Bacalar: la rivolta venne domata soltanto nel 1901 dall’esercito federale messicano che pose fine all’ultimo capitolo dell’indipendenza maya. Le meraviglie della costa caraibica sono state “scoperte” nel 1961 da Jacques Cousteau durante le sue esplorazioni sottomarine intorno alla barriera corallina e da allora le isole, le spiagge ed i palmeti si sono trasformati in centri turistici di forte richiamo. La città di Cancún è stata costruita nel 1970 sui resti di un antico sito maya del quale nulla è rimasto ed oggi, con i suoi alberghi modernissimi, i ristoranti tipici, i bar, gli impianti sportivi e i parchi di divertimento, costituisce il maggior polo di attrazione della costa. Ma basta allontanarsi dalla folla e scendere verso la Laguna di Bacalar per ritrovare l’atmosfera autentica del Mar Caraibico: spiagge isolate, palme, animali esotici, capanne e amache che invitano a godersi in pace questo “paradiso tropicale”. [40421] Lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi lungo la costa del Golfo del Messico è stato determinante per lo sviluppo economico di regioni come il Tabasco e il Tampico. Nonostante la parziale industrializzazione, le lunghe spiagge deserte, le lagune, il clima mite e la vegetazione tropicale continuano ad attirare i turisti che possono godersi una villeggiatura tranquilla tra mare ed escursioni culturali nelle terre degli Olmechi e dei Totonachi. Sulla costa del Golfo, all’altezza di Zempoala, approdò nel 1519 Hernán Cortés con la ferma intenzione di colonizzare il Messico: per impedire che i suoi uomini avessero ripensamenti, il Capitano fece incendiare le sue navi al largo della baia di Veracruz, tagliando l’unica via per il ritorno. Successivamente Veracruz divenne il più importante porto per i velieri e per le navi mercantili sulla rotta tra l’Europa e l’America Latina, un tragitto assai pericoloso, perchè infestato dai pirati fino all’Ottocento. [40431] Con i suoi deserti, i nudi picchi montuosi, le spiagge bianche e le scogliere vorticose sfiorate dal passaggio delle balene, la penisola di Baja California è certamente la regione più spettacolare dell’Oceano Pacifico. Da Tijuana, al confine con la California statunitense, a Cabo San Lucas (poco al di sotto del Tropico del Cancro) il “rift” si allunga per ben 1663 chilometri. Abitata fin dalla preistoria, Baja California venne scoperta nel XVI secolo da Hernán Cortés che sbarcò nei pressi di La Paz, ma non riuscì a vincere gli Indios ostili: la colonizzazione avvenne soltanto nel XVIII secolo con l’aiuto dei missionari Gesuiti. Oggi milioni di turisti - in maggioranza statunitensi - giungono ogni anno negli esotici luoghi di villeggiatura e affollano i porti, attrezzati per accogliere le navi crociera e una moltitudine di yachts. La penisola è separata dalla terraferma da un ampio tratto di mare, il Golfo di California, che bagna le regioni costiere della Sierra Madre. Le spiagge più frequentate della costa Pacifica continentale si trovano tra Puerto Vallarta, Acapulco e Puerto Escondido. Acapulco, con i suoi alberghi lussuosi e clubs esclusivi raggruppati intorno ad un’incantevole baia a forma di mezzaluna, è una delle mete turistiche più famose del mondo. Uno dei poli di maggior attrazione è la ripida scogliera di Quebrada, alta 40 metri, dalla quale spericolati tuffatori si lanciano ogni giorno tra le onde impetuose. In pieno sviluppo turistico è la costa dell’Oaxaca, tra Puerto Escondido e Puerto Angel, un tempo tranquilli villaggi di pescatori conosciuti soltanto ai viaggiatori “alternativi” e agli amanti della natura selvaggia e incontaminata. Poco oltre si incontra l’Istmo di Tehuantepec, la parte più stretta del territorio messicano che separa di appena 200 chilometri l’Oceano Pacifico da quello Atlantico. Nell’Ottocento gli Spagnoli avevano progettato di scavare un canale tra i due Oceani, ma furono battuti sul tempo dagli ingegneri francesi e americani che iniziarono i lavori del Canale di Panama, facendo così abbandonare l’audace piano messicano. [4051] Le statistiche ufficiali dicono che il 90% della popolazione messicana professa la religione cattolica e questa cifra è convincente se pensiamo alla secolare presenza della chiesa che fin dagli albori della Conquista ha aperto le sue missioni in tutto il territorio. Ai vari Ordini religiosi era affidata la conversione, la propagazione della fede, l’educazione civile e religiosa, l’alfabetizzazione ed il controllo familiare e sociale, eppure la radicale evangelizzazione non è riuscita a cancellare le antiche credenze ed i riti apotropaici e propiziatori - rivolti al sole, alla pioggia, agli alberi, alla terra - che riaffiorano ancora nelle celebrazioni, nelle danze e nelle feste popolari, con grande disappunto delle istituzioni ecclesiastiche ufficiali. La fusione tra cattolicesimo e spiritualità india si manifesta specialmente durante i ferventi pellegrinaggi ai santuari sorti sui luoghi dei miracoli (specialmente alla “Madonna di Guadalupe”, apparsa agli Indios nel 1531), nei rituali delle feste religiose, nella venerazione di tanti altarini improvvisati tra le rocce e sugli alberi e nella devozione mostrata ai Santi, ricoperti di ex-voto e presenti un po’ dovunque nelle chiese e nelle case. A molti Santi vennero dati attributi che risalivano agli antichi Dei e la pratica del sacrificio e delle offerte era talmente radicata nell’animo popolare che i primi sacerdoti cristiani si videro costretti ad accettare i doni della terra - polli, mais, frutti, fiori, pane - portati sugli altari in memoria dei vecchi culti. [4062] Una volta l’anno, nel mese di luglio, gli Zapotechi che abitano le valli e la costa dello Stato di Oaxaca si danno appuntamento sul Cerro del Fortín per la festa della “Guelaguetza” - una parola che significa “dono” o “offerta” - che anticamente era dedicata alle divinità Centeotl (protettrice del mais maturo) e Xilonen (Dea del mais acerbo). [4061] In origine la festa culminava con un rituale sacrificio di sangue, ma i Padri Domenicani trovarono un rimedio a questa pratica: calcolando che la festa della “Guelaguetza” cadeva il giorno della “Vergine del Carmen”, fecero costruire al posto del “teocalli” pagano un altare per la Madonna, permettendo di celebrare il rito in nome della cristianità, ma senza spargimento di sangue. La festa si svolge tutt’oggi in un orgia di colori tra danze, musiche ossessive, offerte di frutti, fiori e cibi di ogni genere e culmina con la “danza della piuma”, una cerimonia in memoria del genocidio degli Indios: è un ballo faticoso, eseguito con gesti solenni e salti vorticosi, con uomini dalla faccia tesa, attenti a non perdere l’equilibrio nelle giravolte che rischiano di far cadere i magnifici copricapi a ruota ornati di piume ed emblemi di regalità. La “Guelaguetza” ha radici profonde nella società zapoteca, poichè il “dono” rappresenta un atto di mutua assistenza tra i gruppi familiari di una popolazione che ancora adesso preferisce lo scambio - di oggetti, di lavori domestici, di alimenti - al risparmio e all’accumulo di monete. Questi “crediti” in natura hanno aiutato gli Zapotechi a sopravvivere ai soprusi della Conquista, allo sfruttamento delle autorità, alle carestie, alle epidemie e ai disastri naturali che flagellano la regione. [4071] In occidente le popolazioni indigene vengono chiamate sbrigativamente “Indios”, ma questa parola è troppo generica per spiegare la moltitudine di etnie che vive in Messico e che si distingue per tradizioni, costumi e linguaggi. Si tratta per la maggioranza di popolazioni rurali, anche se le difficili condizioni di vita, la crisi agricola e, di conseguenza, l’emarginazione hanno sconvolto profondamente l’equilibrio ambientale e demografico del Messico, dove il miraggio della grande città ha fatto svuotare le campagne. Huichol, Mazahua, Tzotzil e Tzeltal, Chol, Lacandoni, Otomí, Zapotechi, Mazatechi e Tarahumara sono soltanto alcune delle 50 culture preispaniche sopravvissute alla Conquista. Ognuna di queste etnie appartiene ad un gruppo linguistico diverso nel quale la popolazione si esprime tutt’ora - tra cui il Náhuatl che costituisce la seconda lingua del Messico dopo lo Spagnolo. Molti villaggi sono costruiti ancora secondo le tecniche tramandate dagli antenati, gli abitanti si vestono con i costumi tradizionali e molti di essi praticano riti ancestrali dove si mescolano elementi cristiani e pagani. Nella diversità delle sue popolazioni e tradizioni consiste la ricchezza del Messico, un patrimonio spirituale, umano e materiale che rischiava di sparire a causa dell’eterno conflitto tra la classe dominante - d’origine spagnola e meticcia - e gli Indios, considerati a lungo cittadini “minori”. Ciò ha portato ad una grave emarginazione e all’esclusione dalla vita sociale ed economica, un errore al quale si tenta ora di porre rimedio con studi approfonditi sulla materia e con nuove leggi protettive. Una delle poche risorse di sopravvivenza è l’artigianato, di varietà e bellezza straordinarie. L’arte popolare fa ormai parte delle grandi collezioni private e pubbliche: al Museo Antropologico di Città del Messico un’intera sezione è dedicata all’Etnologia con costumi, manufatti, oggetti di cultura materiale e ricostruzioni ambientali. Sui volti seri degli Indios, eredi delle antiche civiltà, è scritta l’intera storia del Messico e vi si legge la dignità, la consapevolezza della propria identità, ma anche la fatica e la sofferenza per tante ingiustizie patite nei secoli. [4081] Negli Anni Venti si forma in Messico il movimento dei pittori di “Murales”, i cui i maggiori esponenenti sono Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros e José Clemente Orozco. I “Murales” nascono come pittura di denuncia sociale e sono volutamente figurativi, monumentali, coloratissimi e pieni di elementi popolari: doveva essere una pittura comprensibile a tutto il popolo che doveva prendere coscienza della travagliata storia del Messico, ad iniziare dagli splendori delle passate civiltà all’oppressione degli Indios, per arrivare fino alla lotta per l’indipendenza e alla rivoluzione. La radice del fervore con cui si voleva visualizzare il grido di libertà di un intero popolo va ricercata nella militanza politica degli autori nelle file della sinistra - nel 1919 fu fondato il Partito Comunista messicano - che trovò l’appoggio di un folto gruppo di intellettuali e uomini politici che commissionarono gli affreschi per decorare gli edifici pubblici, come il Palacio Nacional di Città del Messico, i municipi delle capitali federali ed i palazzi ministeriali. “Dobbiamo elogiare l’arte monumentale in tutte le sue forme perchè diventi patrominio pubblico” - scrisse Siqueiros in un manifesto di quegli anni - “I creatori di bellezza devono impegnare tutte le loro forze affinchè possano produrre opere ideologiche per il popolo.” Proprio a causa dell’ideologia a fini didattici il valore artistico dei “Murales” è stato a lungo sottovalutato dalla critica occidentale ed i pittori sono stati accusati di fare troppe concessioni al realismo sociale e alla propaganda a discapito della capacità creativa. Il movimento dei “murales” proseguì anche dopo la Prima Guerra Mondiale, perdendo in parte il radicalismo politico del primo periodo, e vide tra i suoi autori degli “outsider” come Rufino Tamayo e Juan O’Gorman. [4091] In principio era il mais, e poi vennero i fagioli, i pomodori, le zucche ed i peperoncini: erano questi gli alimenti base delle antiche popolazioni preispaniche e lo sono tutt’ora. Molti piatti, che oggi possiamo gustare sulle tavole messicane, risalgono al tempo degli Aztechi anche se la cucina moderna vi ha operato delle varianti. Tutto il mondo conosce le “tortillas”, le sottili focacce di farina di mais impastate con acqua e cotte su piastre roventi. La “tortilla” non viene servita soltanto come pane: riempita di verdura e carne diventa un “taco”, immersa nella salsa piccante del chile è un’“enchillada”, farcita di formaggio e fagioli fritti viene chiamata “quesadilla” e spalmata con tutti questi ingredienti insieme è un succulento “burrito”. Le specialità gastronomiche ed i modi di preparazione dei cibi variano moltissimo a seconda delle diverse regioni e dei frutti che vi crescono: tra i piatti più gustosi vi sono la “mole poblana” (salsa di Puebla) con tacchino salmistrato e cotto in una salsa di cioccolato, e la “guacamole”, un purée di avocado condito con spezie da gustare come antipasto o contorno. I mercati del Messico sono una gioia per gli occhi e per il palato: frutti esotici succosi e dai colori brillanti vengono accatastati ad arte accanto a montagne di peperoncini, legumi secchi e noci di cocco e dappertutto sale l’odore delle verdure e delle carni arrostite su grandi teglie di ferro che servono per preparare i “tacos”. E non bisogna dimenticare il cacao (una parola che deriva dal maya “cacaw”), una pianta considerata sacra dagli antichi, portata sulla terra dal Dio Quetzalcóatl e irrigata dal Dio Tlaloc. La bevanda ricavata dai chicchi di cacao (in azteco “chocolatl”, un nome adottato poi in tutto il mondo) veniva usata nei cerimoniali dedicati al Dio Ek Chuah. [4101] “Sombreri, ponchos e cactus” costituiscono l’immagine stereotipa del Messico vista e ripetuta all’infinito nel cinema e nella televisione: sombreri e ponchos esistono ma appartengono ora quasi esclusivamente alle terre settentrionali, mentre i cactus crescono effettivamente in abbondanza in tutte le regioni aride del paese. Scultorei, imponenti, spinosi, panciuti, slanciati, aggrovigliati, carnosi, i cactus - di cui si conoscono circa 4000 specie diverse - disegnano un paesaggio fantastico, poco ospitale e difficile da attraversare. Molte piante sono commestibili come il “pitahaya” (il frutto del cactus ad organo), le foglie di “nopal” e le “gusanos de maguey”, le punte di una varietà d’agave dalla quale si ricava anche il “pulque”, una bevanda fermentata fortemente alcoolica che costituisce la base per il “mezcal” e la “tequila”. I Maya veneravano la divinità “Mayahuel”, protettrice delle agavi, una pianta che forniva anche una fibra, il “sisal”, usata per intrecciare stuoie e per tessere stoffe grossolane. Gli Spagnoli, che introdussero i cactus come piante ornamentali in Europa, rimasero così sorpresi dai molteplici usi che ne facevano gli indigeni da chiamare la pianta “albero delle meraviglie”. [4111] Il pantheon degli antichi Dei preispanici è sconfinato. Ogni singolo aspetto della natura veniva considerato sacro e adorato come divinità benefica o malefica. Era comune la dualità degli essere divini, che spesso potevano manifestarsi in molteplici forme, maschili o femminili, umane o animali. [41111] La divinità solare Itzamná era il “Kinich Ahau”, il Dio Supremo dei Maya, progenitore dei sovrani e benefico verso gli uomini. Il suo nome significa “casa del rettile” e per questo veniva rappresentato con attributi di serpente ed in seguito fu associato a Kukulkán-Quetzalcóatl, il “serpente piumato”. Il suo doppio femminile era la dea Ixchel, “Signora dell’arcobaleno”, protettrice delle partorienti, della medicina e della tessitura. [41121] La “donna serpente” Coatlicue, raffigurata anche come Cihuacóatl, era considerata la madre degli Dei e a lei venivano sacrificate molte vittime. Era la protettrice delle donne morte di parto, divinizzate anch’esse e compagne demoniache della Dea. Coatlicue rappresentava sia il Cielo che l’Inframondo e presiedeva dunque alla vita e alla morte. Ad essa va associata anche Tonacacíhuatl, la “Singora della nostra carne”, e Omecihuatl la “Signora della dualità”, le dee primordiali che generarono le quattro divinità principali, i Tezcatlipoca azzurro, bianco, rosso e nero, cioè Huitzilopochtli, Quetzalcóatl, Xipe Tótec e Tezcatlipoca. [41131] Dio del Sole e della Guerra, Huitzilopochtli è la divinità suprema degli Aztechi che lo adorarono inzialmente in veste totemica: un coltello sacrificale di selce avvolto in un pezzo di stoffa. A lui sono dedicati la maggior parte dei sacrifici di sangue, necessari per farlo rinascere ogni giorno come astro solare. Al Dio viene associato anche Xiuhcóatl, il “serpente di fuoco” che rappresenta i raggi del sole, la siccità e il fuoco ed è anche l’arma con la quale Huitzilopochtli uccide i suoi fratelli e la sorella. [41141] Il “Dio Vecchio”, o “Signore del Fuoco”, Huehuetéotl era la divinità azteca che proteggeva la cerimonia dell’accensione del “Fuoco Nuovo” ed il suo “nahual”, il suo alter ego, si manifestava nell’apparizione zoomorfa del “serpente di fuoco”. Il Dio, che forse aveva un predecessore tra le divinità zapoteche, è spesso rappresentato mentre sorregge un braciere o diventa braciere egli stesso ed era venerato in tutte le case come simbolo del focolare. [41151] Associato al Dio Chaac dei Maya e al Dio Cocijo degli Zapotechi, il Tlaloc azteco è una delle divinità più importanti del pantheon preispanico, dispensatore delle acque, della pioggia e della fecondità della terra. Il suo nome originario è “Tlalloccantecuhtli” il “Signore del posto dove sgrogano le acque” che vive nel paradiso “Tlallocan” dove vanno le anime dei guerrieri e dove si nasconde la Luna durante il giorno. Rappresentato spesso con una maschera di giada e adorno di piume, fiori e gioielli, Tlaloc riceve numerosi sacrifici umani, soprattutto di bambini. La versione femminile - o sposa - di Tlaloc è Chalchiuhtlicue, “quella della gonna di giada”, la Dea delle acque che scorrono, come il mare ed i fiumi, ed è rappresentata spesso sul dorso di una tartaruga. [41161] Tonatiuh è un dio solare, rappresentante il “Quinto Sole”, l’era nella quale vivevano gli Aztechi. Il suo culto era prerogativa esclusiva della casta sacerdotale. Il suo volto compare al centro della “Pietra del Sole” dove è rappresentato con la lingua fuori dalla bocca, in attesa del sangue delle vittime sacrificate. [41171] Xolotl, il “gemello prezioso”, è l’alter ego di Quetzalcóatl e viene rappresentato spesso come un cane mostruoso che simboleggia il pianeta Venere nella sua fase serale. Nel mito della creazione Xolotl rifiuta di uccidersi insieme alle altre divinità per far in modo che il Sole e la Luna possano compiere il proprio cammino ed è perciò il simbolo di chi è incapace di commettere autosacrificio. Tuttavia è un Dio potente che scende negli Inferi per riportare le ossa degli antenati sulla terra per far rinascere gli uomini all’inizio del “Quinto Sole”. [41181] Nonostante il suo aspetto grave, Xochipilli è il Dio azteco della primavera, dell’amore, dell’arte e dei fiori. Protettore dei giovani, il Dio insegnava la musica, la danza e la poesia e sovrintendeva al gioco della pelota. Il suo simulacro, adorno di petali di fiori e farfalle, veniva venerato da artisti e agricoltori. [41191] Il Dio azteco della rinascita e delle stagioni è Xipe Tótec, “Nostro Signore Scorticato”, che appare mentre indossa una pelle umana, poichè lo scorticamento simboleggiava la fine delle cose vecchie e la nascita di nuove così come fa la terra nello scorrere delle stagioni. Xipe Tótec era anche il protettore degli orafi, forse perchè la pelle delle vittime sacrificate seccandosi si tingeva di color d’oro. [41201] Coyolxauhqui, “quella che ha il viso ornato da sonagli” è la personificazione della Luna, la sorella uccisa da Huitzilopochtli, colei che vive di notte e muore ogni giorno al sorgere del sole. Molte altre divinità erano legate alle fasi lunari e cambiavano sembianze a seconda che la luna fosse crescente o calante. Una delle immagini che simboleggia la luna è un coniglio stretto tra le braccia di una divinità, in quanto gli Aztechi credevano di scorgere nella luna piena la figura di quell’animale. [41211] Le divinità legate alla bevanda sacra e rituale del Pulque sono numerose, ma la più importante è Mayahuel, la “Dea dalle 400 mammelle” che protegge le libagioni alcooliche e nutre i suoi 400 figli, tutte divinità dell’ubriachezza. Nel mondo azteco il pulque veniva chiamato “octli” ed era riservato alle cerimonie sacre, mentre l’ubriacchezza fine a se stessa poteva venir punita anche con la morte. [41221] Come l’acqua, anche il mais - il più importante alimento delle popolazioni preispaniche - aveva numerosi protettori divini, tra cui Chicomecóatl, la Dea “Sette Biscia” che sovrintendeva al sostentamento degli uomini, ma era anche apportatrice di carestie. Ogni fase della crescita della pianta aveva un sua divinità perculiare: Xilonen era la Dea del Mais tenero, mentre Centeotl (presso i Maya Yum Xac) era la Dea del Mais maturo, colei che aveva partecipato alla creazione impastando gli uomini con il mais. [41231] Numerose erano le divinità legate all’Inframondo, i nove “Signori della Notte” dei Maya, tra cui Yum Cimil, rappresentato con aspetto scheletrico e accompagnato da animali notturni come il gufo, e Puhatun, un Dio dall’aspetto senile che sporge da una conchiglia. Il loro corrispondente azteco era Mictlantécuhtli, raffigurato spesso nell’atto di danzare. Un altro dio mostruoso era Tlaltecuhtli, il “Signore della Terra” che inghiottiva il sole alla sera e lo restituiva all’alba. Divinità eminente durante i sacrifici di sangue, a lui erano dedicati i cuori delle vittime. [51] Nella travagliata storia del Messico emergono molti personaggi dalle più diverse origini, con le loro ombre e le loro luci, spesso stranieri che si sono trasferiti nel vasto paese per impadronirsi di terre e di uomini, chi con le armi, chi con le parole. Dei sovrani preispanici sappiamo poco, dobbiamo affidarci agli antichi codici o essere capaci di interpretare i glifi, mentre la letteratura è generosa di biografie e memoriali dei conquistatori, dei missionari e dei rivoluzionari che rivelano personalità dalle molteplici sfaccettature. [511] L’ultimo grande sovrano degli Aztechi - il cui nome era Motecuhzoma Xocoyotzin, “Signore Arrabbiato”, ma che gli europei trascrissero come Montezuma o Moctezuma - sale al trono nel 1502, intenzionato a risollevare le sorti del vasto impero che sta attraversando un momento di crisi. Sarà un sovrano saggio e giusto fino al fatale incontro con Hernán Cortés nel 1519. In pochi anni Moctezuma riesce ad ampliare i confini, a bloccare il calo demografico abolendo la “Guerra dei Fiori” e a ristabilire l’assoluta supremazia del suo regno, anche se molte province gli rimangono nemiche per i gravosi tributi che sono costrette a pagare. Nel 1506, insieme ad altri fenomeni funesti, appare in cielo una cometa che né Moctezuma né i suoi sacerdoti riescono ad interpretare, ma che in qualche modo viene collegata al temuto ritorno del Dio Quetzalcóatl che poterà la pace e la prosperità agli uomini, ma che detronizzerà il Re. Quando Cortés giunge dal mare con le sue navi, Moctezuma è irriquieto - potrebbe trattarsi di Quetzalcóatl o di un suo emissario - e manda incontro agli stranieri varie delegazioni di ambasciatori con ricchi doni che cercano di persuadere Cortés a tornare da dove è venuto. Invece Cortés prosegue la sua marcia e nel 1519 si trova davanti a Moctezuma che egli descrive come un “signore barbuto che possiede, riprodotte in oro, argento, pietra e piume tutte le cose che esistono sulla terra”. Gli Aztechi basavano i loro rapporti sulla dialettica, tanto che il titolo regale “tlotoani” significa “colui che parla”, ma Moctezuma - descritto dal cronista Diego Durán come “un retore e oratore nato che quando parlava conquistava gli altri con le sue frasi raffinate e seduceva con i suoi profondi ragionamenti” - questa volta tace: la rinnucia alla comunicazione è un simbolo della sconfitta. Molto si è discusso sulla titubanza di Moctezuma di affrontare gli Spagnoli, numericamente così inferiori. La ragione è forse da ricercare nella “religiosità” di Moctezuma che crede nei segni e nell’inevitabilità del destino, per quanto terribile sia. Per gli Aztechi non c’è modo di fermare i drammatici eventi che seguiranno, come se questi fossero già stati scritti nella storia: la strage nel Templo Mayor, lo sterminio di migliaia di messicani, le malattie e il crollo dell’impero azteco. Moctezuma viene arrestato e costretto a placare l’animo dei sudditi, esortandoli ad ubbidire agli stranieri. Durante la sommossa che segue il massacro dei nobili nel Tempio, Moctezuma viene ferito - secondo alcuni da una pietra lanciata dalla folla, secondo altri da una coltellata di un soldato spagnolo - e poco dopo muore e con lui la civiltà antica. L’angoscia di Moctezuma per le sorti del suo popolo viene espressa con chiarezza nelle parole delle cronache azteche trascritte da Bernardino de Sahagún: “Cosa possiamo fare noi, uomini nobili? Siamo ormai perduti, abbiamo ormai inghiottito la morte... Mi addolora il pensiero dei vecchi e delle vecchie, dei bambini e delle bambine che non hanno possibilità né esperienza per difendersi...cosa mai possiamo fare? Nati noi siamo, accada ciò che deve accadere”. [521] Ottimo capitano, buon soldato, uomo dal carattere rude e battagliero, crudele e coraggioso, Hernán Cortés impersona come nessun altro la figura del “conquistador”. Fedele al Re di Spagna e religioso quanto basta, Cortés cerca la ricchezza per sé e per la sua patria ed è invaso dallo spirito di avventura che lo spingerà a non fermarsi mai, neanche dopo la tremenda vittoria sugli Aztechi a Città del Messico. La nascita di Cortés è controversa: c’è chi lo vuole di discendenza nobile e chi lo descrive come un uomo di umili orgini, piuttosto istruito e adatto alla vita militare. Nel 1504 viene inviato a Santo Domingo e poi a Cuba dove inizia il suo rapporto burrascoso con il governatore Diego Velasquez, che prima lo mette agli arresti e poi gli affida la terza spedizione in Messico, dopo i falliti tentativi dei capitani Francisco de Córdoba e Juan de Grijalva. Nel 1519 Cortés approda a Cozumel dove recupera il naufrago spagnolo Jerónimo de Aguilar e riscatta una schiava di nobili origini, la “Malinche” (o “Doña Marina”), che diventerà sua compagna e interprete, un ruolo ambiguo che vede la donna oscillare tra la fedeltà al suo popolo, l’odio verso gli Aztechi e il tradimento in favore degli Spagnoli. Sulla costa del Golfo il capitano viene accolto amichevolmente dai Totonachi che diventano suoi alleati nella guerra contro l’impero azteco. Nel frattempo il governatore di Cuba si pente di questa spedizione e cerca di richiamare Cortés che in tutta risposta fa incendiare le proprie navi e fonda simbolicamente la città di Veracruz, dichiarandosi sotto la diretta autorità del Re di Spagna e proseguendo la marcia verso Città del Messico. La conquista di Tenochtitlán avviene a due anni dalla partenza, nell’agosto del 1521. Città del Messico diventa la capitale della “Nuova Spagna” e Cortés è nominato governatore. Lasciando dietro di sé una popolazione stremata dalla guerra e dimezzata dalle stragi e dalle malattie portate dagli Europei, Cortés parte con le sue truppe alla conquista di tutte le terre dominate un tempo dall’impero azteco, spingendosi fino in Honduras. Nel 1528 Cortés, ormai ricco ma poco stimato per il suo carattere indisciplinato e per alcune presunte irregolarità amministrative, è richiamato in Spagna dove gli viene tolta la carica di governatore. Dopo pochi mesi riparte per il Messico con il titolo di Marchese della Valle di Oaxaca. Il nuovo Vicerè ha poca simpatia per Cortés, il quale preferisce imbarcarsi con le sue truppe alla ricerca di nuove terre e nel 1535 scopre la California. Ma il Re lo rivuole in Spagna per combattere in Algeria, una sfortunata spedizione che vede l’esercito spagnolo sconfitto, e Cortés decide di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà a Castileja di Cuesta dove muore del 1547. La sua salma, come Cortés ha chiesto prima di morire, verrà inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno. Di lui rimangono le cinque lunghe lettere inviate a Carlo V che compongono la “Relazione della conquista del Messico”, redatte tra il 1519 e il 1526. [531] Bernal Díaz del Castillo ci ha tramandato la più attendibile e dettagliata cronistoria della conquista del Messico, scritta a distanza di anni da quell’impresa e pubblicata soltanto postuma. Díaz si discosta profondamente dagli altri cronisti di quell’epoca: evita la “glorificazione” di Cortés e dà spazio anche agli altri protagonisti della storia, descrivendo i caratteri ed i comportamenti sia dei compatrioti che degli avversari. Nato tra il 1492 e il 1496 e figlio di un notabile di Medina, Bernal si imbarca per le Indie come semplice soldato nel 1514 al seguito del capitano Pedro de Davila e partecipa alle spedizioni di Francisco de Córdoba e di Juan de Grijalva. A Cuba incontra Hernán Cortés e con lui parte alla conquista del Messico. Probabilmente a quel tempo non aveva intenzione di scrivere le sue memorie e, si dice, che il suo grado d’istruzione di allora fosse piuttosto elementare. Dopo la distruzione di Città del Messico, Bernal riceve in dono terre e schiavi, ma preferisce continuare a seguire Cortés nelle esplorazioni che lo porteranno fino in Honduras. Quando nel 1528 Cortés viene richiamato in Spagna, Bernal Díaz del Castillo passa alcuni anni vagabondando per il Messico alla ricerca di qualche lavoro e commissione e ritorna in patria due volte, nel 1540 e nel 1550, per sposarsi e per reclamare i benefici che gli spettano come “conquistador”. Infine si stabilisce a Santiago del Guatemala dove inizia la stesura dell’“Historia verdadera de la conquista de Nueva España” (“Vera storia della conquista della Nuova Spagna”) con l’intenzione di confutare le memorie del cappellano di Cortés, Francisco Lopez de Gómara, che Bernal considera inesatte. In effetti la relazione di Díaz ridimensiona notevolmente la figura eroica di Cortés e vi sono parole favorevoli - sempre nei limiti della mentalità dell’epoca - anche per Moctezuma e per gli Indios. Bernal Díaz del Castillo muore in Guatemala tra il 1581 e il 1584, dopo aver inviato in Spagna il suo manoscritto che verrà pubblicato in versione corretta ed epurata nel 1632. La copia originale ed integrale viene ritrovata in Guatemala soltanto nel 1840. [541] Santificato dagli Indios, avversato in patria, il frate domenicano Bartolomé de Las Casas è un personaggio singolare nella storia della Conquista, dotato di grande umanità e animato da forte senso critico verso l’operato della Corona spagnola e della Chiesa stessa. Nato nel 1484 da genitori di origine ebraica (poi convertitisi) che avevano partecipato alla seconda spedizione di Cristoforo Colombo, Bartolomé diventa uno dei primi sacerdoti che predicano nel “Nuovo Mondo”: partito dapprima per Haiti e poi per Cuba come cappellano dei Conquistadores, nel 1510 riceve in beneficio terre e schiavi. Colpito dallo sfruttamento e dalla schiavitù alla quale sono sottoposti gli indigeni, abbondona la vita privilegiata e si erge come il più fervente difensore degli Indios denunciando pubblicamente l’avidità dei governanti locali. Nel 1516 scrive un primo memoriale sui misfatti dei conquistatori che verrà esposto alla corte di Carlo V come “Relazione della distruzione delle Indie” e che contiene pagine talmente raccapriccianti che il Re cattolico si vede costretto a modificare alcune leggi delle colonie, vietando d’ora in poi la schiavitù ed i lavori forzati gratuiti. Queste riforme però verranno in seguito sospese per le proteste degli “ecomenderos”. Dopo aver rifiutato una diocesi a Cuzco in Perù, Bartolomé diventa nel 1543 vescovo del Chiapas nella città che per gratitudine aggiungerà al proprio nome quello del sacerdote: San Cristóbal de Las Casas. Il clima di ostilità, fomentato da quelli che egli chiama “gli aguzzini, agitati da cieca ambizione e diabolica brama”, lo costringe a tornare nel 1552 in patria, dove si dedicherà alla preparazione dei giovani missionari. Sempre più convinto che l’unico metodo per avvicinare i nativi alla fede cristiana sia la dolcezza e la parola di Dio e non i battesimi forzati e ottenuti con il terrore, Bartolomé de Las Casas si ritira in un convento domenicano di Madrid dove muore a 82 anni nel 1566. [551] Subito dopo la conquista di Città del Messico, la Spagna invia nel “Nuovo Mondo” i suoi missionari con il compito di convertire gli Indios, di educare i giovani della nobiltà azteca e di fondare chiese e monasteri. Uno di questi missionari è il frate francescano Bernardino de Sahagún, laureato a Salamanca, che giunge a Città del Messico nel 1529. Sahagún ha 30 anni e nel primo periodo della sua permanenza si dedica allo studio della lingua “náhuatl” di cui diventa il più profondo conoscitore, tanto da venir chiamato come interprete nelle udienze dei Consigli ufficiali e nei processi. Nel 1535 diventa insegnante nel “Colegio de Santa Cruz” dove ha tra i suoi allievi numerosi nobili, sacerdoti e sapienti aztechi che a loro volta lo istruiscono sulla storia, sui culti e sui costumi del loro popolo. Nel 1545 Sahagún decide di spendere la sua vita nello studio delle culture antiche, apparentemente con l’intento di conoscere bene l’antica idolatria per meglio combatterla, ma la sua opera va ben oltre: Sahagún riesce a raccogliere una colossale documentazione riguardo alla retorica, alla morale, alla scienza, ai culti, alla politica, alla flora e alla fauna che ancor’oggi costituisce il più prezioso studio sulle culture preispaniche, la “Historia general de las cosas de Nueva España” (“Storia generale della Nuova Spagna”) ed il “Codice fiorentino”. Sahagún fa trascrivere i racconti ed i codici istoriati in “náhuatl” ed in messicano con caratteri latini e cura la traduzione in castigliano. I manoscritti vengono inviati in Spagna tra il 1578 e il 1590, anno della morte di Sahagún, ma sono rimasti inediti fino al 1830. [561] Diego de Landa è un personaggio scomodo nell’ambito della storia delle missioni. Uomo di grande erudizione ma di scarsa umanità, difensore ed insieme persecutore degli Indios, Landa si è tristemente distinto per atti di inaudita violenza contro gli indigeni che già soffrivano per la crudeltà e le angherie dei coloni spagnoli. Nato nel 1524 in Castiglia, Landa entra giovanissimo nell’Ordine dei Francescani e nel 1549 viene inviato nello Yucatán, appena conquistato da Francisco de Montejo. Qui impara in breve tempo le lingue maya, riesce a guadagnarsi la fiducia degli Indios e nel 1561 occupa la sede vacante della diocesi di Izamal. Durante il suo peregrinare nel paese, Landa riceve preziose informazioni sulla storia, sulla vita e sui culti dei Maya che egli raccoglie in una serie di scritti, “Relación de las cosas de Yucatán” (“Relazione dallo Yucatán”), un libro indispensabile per la conoscenza della cultura e della lingua maya che verrà utilizzato nei secoli seguenti come “guida” da esploratori e archeologi. Nel 1562 Diego de Landa si macchia di un terribile delitto e fino ad oggi rimane inspiegabile come un uomo così colto si sia fatto trascinare dal fanatismo religioso al punto da commettere una strage: avendo scoperto alcuni idoli pagani vicino al convento di Maní, Landa organizza una feroce spedizione punitiva, facendo torturare centinaia di persone fino alla mutilazione permanente e alla morte (egli stesso è accusato di aver provocato la morte di nove indigeni). I corpi vengono messi al rogo sulla pubblica piazza insieme a 5000 idoli e 27 codici maya ed i pochi superstiti vengono condannati all’“autodafè” e ai lavori forzati. Le stesse autorità ecclesiastiche sono inorridite dall’eccesso di zelo di Landa, che viene processato in Spagna, ma infine assolto, poichè ha applicato null’altro che “i metodi coercitivi dell’Inquisizione”. Nel 1573 torna nello Yucatán dove prosegue la sua intransigente missione fino alla morte, avvenuta nel 1576. [571] A John Lloyd Stephens e Frederick Catherwood si deve la prima colossale documentazione scritta e illustrata delle antichità della cultura Maya, realizzata alla metà dell’Ottocento, epoca di grandi scoperte archeologiche, ma ancora piena di dubbi e incertezze per quanto riguarda le misteriose civiltà della Mesoamerica. John Stephens nasce nel 1805 negli Stati Uniti, in una famiglia agiata che gli permette di laurearsi in legge alla Columbia University, di dedicarsi ai libri e di intraprendere diversi viaggi in Europa ed in Oriente. Frederick Catherwood nasce invece nel 1799 alla periferia di Londra da una famiglia borghese, frequenta la scuola locale ed infine si diploma come architetto. L’avvocato-scrittore e l’architetto-disegnatore si incontrano nel 1835 a Londra e tra di loro nasce un’amicizia che li porterà a lunghi viaggi espolorativi nell’America Latina. Entrambi sono affascinati dalle cronache e dai disegni che illustrano le meravigliose rovine di una civiltà che ancora non ha nome - quella dei Maya - nel Guatemala e nello Yucatán e, grazie alla carica diplomatica di Stephens, i due riescono ad avere il permesso per soggiornare e per viaggiare in quelle terre. Catherwood armato di penna e blocco da disegno e Stephens del suo diario esplorano per due anni - 1839 e 1840 - le rovine nascoste tra le foreste tropicali del Guatemala e dello Yucatán, visitando tra mille difficoltà Copán, Tikal, Uxmal, Chichén Itzá, Palenque e centinaia di altri siti fino ad allora sconosciuti. Per poter agire liberamente sono costretti talvolta ad acquistare - grazie ai soldi di Stephens - intere aree archeologiche che all’epoca facevano parte delle proprietà private dei ricchi “hacendados”. I disegni di Catherwood e le descrizioni delle rovine di Stephens costituiscono il primo “corpus” delle antichità del Messico, pubblicato nel 1844 in versione ridotta: purtroppo il loro progetto di dare alle stampe un’opera enciclopedica con testi di Stephens, Humboldt, Prescott ed altri si dimostra irrealizzabile per l’altissimo costo. Entrambi tornano da questi viaggi malati di febbre tropicale e il loro sodalizio si allenta: Stephens ha perso interesse per l’archeologia e con fatica Catherwood riesce a convincere l’amico a seguirlo nuovamente in Messico nel 1852. Dopo poco tempo Stephens viene trovato morto sotto una “ceiba”, l’albero sacro dei Maya. Catherwood muore due anni dopo, nel 1854, durante l’affondamento della nave che doveva riportarlo in California. [581] Vero figlio del popolo nato nel 1806 vicino ad Oaxaca in una famiglia di contadini zapotechi, Benito Juárez è l’uomo della provvidenza che guida il Messico verso la democrazia e le riforme e che riesce a ricostituire la Repubblica dopo la breve parentesi monarchica imposta dalle potenze straniere. Per fuggire alla miseria il giovane Juárez studia in seminario per diventare prete, ma poi cambia idea e si laurea in legge per poter difendere i diritti delle popolazioni che abitano nei villaggi della Valle di Oaxaca. Entrato in politica, Juárez viene eletto come deputato tra le fila del Partito Liberale e, dal 1848 al 1852, diventa governatore dello Stato di Oaxaca, carica che gli permette di intraprendere numerose riforme in campo scolastico. Costretto per due anni all’esilio dal regime dittatoriale centrale, Juárez riappare sulla scena politica nel 1855 e diventa Ministro della Giustizia del nuovo governo liberale: in quella veste riesce a limitare lo strapotere delle autorità ecclesiastiche - atto che culmina nella cacciata definitiva dei Gesuiti - e delle alte sfere militari. Un colpo di Stato mette fine alle sue iniziative, ma dopo tre anni di Guerra Civile Benito Juárez torna a Città del Messico e viene eletto Presidente: per la prima volta dopo secoli un indio guida il suo popolo. Per risollevare le finanze del Paese, Juárez si vede costretto a bloccare il pagamento del debito estero contratto dai suoi predecessori e avallato dalla Francia. Questa manovra offre a Napoleone III il pretesto per invadere il Messico ed imporre sul trono l’arciduca Massimiliano d’Asburgo, novello imperatore di breve durata: fucilato lo straniero nel 1867 dalle truppe repubblicane, Benito Juárez viene eletto nuovamente Presidente, carica che egli ricoprirà fino al 1872, quando morirà a seguito di un infarto. [591] Emiliano Zapata, a ottant’anni dalla sua morte, continua a vivere nel cuore del suo popolo. È l’uomo che ha preferito farsi uccidere piuttosto che scendere a compromessi e che ha mantenuto fede alla promessa di lottare per la libertà fino all’ultimo. Emiliano nasce nel 1877 nello Stato del Morelos in una famiglia di “rancheros”, piccoli proprietari di bestiame, dove impara a domare e ad addestrare i cavalli che rimarranno per sempre la sua passione. Zapata sa leggere e scrivere e diventa il portavoce del suo villaggio che lotta contro le ruberie degli “hacendados”, i grandi proprietari terrieri. Quando vede che le promesse governative vengono disattese, raccoglie intorno a sé un piccolo esercito di “campesinos” male armati che però riuscirà a conquistare, una dopo l’altra, le città del Morelos. Organizzatosi e armatosi meglio, Zapata occupa nel 1911 Città del Messico, consegnando senza troppa convinzione la capitale in mano all’ideologo della Rivoluzione, Francisco Madero, che diventerà Presidente ad interim. Ma le riforme agrarie non sono sufficienti e, al grido di “Tierra y Libertad”, Zapata continua a scagliarsi contro i latifondisti che ormai lo definiscono “il mostro scarlatto del sud”. Per meglio contrastare le truppe federali, Zapata si unisce alla “Divisione del Nord” guidata da Pancho Villa: insieme marciano nuovamente contro Città del Messico, accolti dal popolo come trionfatori. Ma i due “generali” non sono uomini politici e il governo centrale passa di nuovo in mano a uomini senza scrupoli che si fanno beffe della rivoluzione. Prudentemente Emiliano Zapata mantiene in piedi la sua armata, ma nel 1919 viene attirato in trappola da un colonello traditore: il rivoluzionario e la sua scorta vengono uccisi senza aver tempo di difendersi. La fine di Zapata è macabra: la sua testa decapitata viene portata in trofeo di villaggio in villagio per mostrare che il “capo” è morto e con lui i suoi ideali. [601] Pancho Villa è, insieme a Emiliano Zapata, uno dei simboli della Rivoluzione Messicana - la più clamorosa dell’America Latina ed anche la più documentata - che vide la partecipazione di cronisti e fotografi da tutto il mondo. Grande condottiero, uomo schietto e semplice, Villa è sempre in prima fila accanto al suo esercito di contadini che gli rimarranno fedeli in tutte le battaglie. Doroteo Arango - il futuro Pancho Villa - nasce intorno al 1878 nelle aride terre del Durango, nel nord del Messico, da una famiglia di “peones”, semplici braccianti. A 17 anni diventa un fuorilegge dopo aver ucciso il figlio dei padroni dell’“hacienda” che aveva violentato sua sorella. Nel 1910, con il nome di Pancho Villa, il “bandido” abbraccia la causa della rivoluzione, affascinato da Francisco Madero che promulga il “piano di San Luis Potosí” nel quale si chiedono libere elezioni e la riconsegna delle terre ai contadini. Villa raccoglie intorno a sé un esercito eterogeneo fatto di contadini, banditi, soldati, avventurieri statunitensi, canadesi ed europei, tra cui il nipote di Giuseppe Garibaldi. Villa conquista una città dopo l’altra e riesce a spingersi fino a Città del Messico. Quando Francisco Madero sale al potere, Pancho Villa vede esaurita la sua funzione e si ritira a Chihuahua, dove si dedica al commercio, ma nel 1912 riprende le armi per difendere il nuovo governo. I suoi metodi da guerriglia sono malvisti dall’esercito federale e Pancho viene arrestato e gettato in carcere, dopo impara a leggere e scrivere. Dopo l’uccisione di Francisco Madero, Villa riesce a formare un nuovo esercito che, come testa di ponte, usa i treni, carichi di soldati e “soldaderas” - madri, sorelle e spose dei combattenti. Nel 1914 Villa, unitosi a Zapata, entra nuovamente a Città del Messico carico di speranze. Tuttavia gli ideali rivoluzionari vengono traditi: Zapata viene ucciso in un tranello e Villa accetta di ritirarsi in una piccola “hacienda”, dove morirà nel 1923 dopo essere caduto in un’imboscata. [611] La vita artistica e privata di due giganti dell’arte messicana come Diego Rivera e Frida Kahlo si legge come un romanzo: è l’incontro-scontro tra due personalità molto diverse tra di loro che esprimono le due anime del Messico, il dolore e l’esuberanza, il buio e la luce. Diego Rivera nasce a Guanajuato nel 1886, studia pittura e disegno e tra il 1907 e il 1920 compie numerosi viaggi in Europa: l’artista più “rivoluzionario” del Messico vive dunque gli anni cruciali della Rivoluzione lontano dalla sua patria. Frida Kahlo nasce nel 1907 a Coyoacán da genitori per metà ebrei e per metà meticci e la sorte le prepara una vita difficile: a 6 anni contrae la poliomelite, che la lascia claudicante, e nel 1925 ha un gravissimo incidente che la costringe a sottoporsi a trentacinque operazioni per alleviare i dolori dovuti alle fratture. I due si incontrano per la prima volta negli Anni Venti alla Scuola Nazionale Preparatoria di Città del Messico dove Frida studia pittura. Nel 1929 Rivera e Kahlo si sposano e il loro matrimonio è subito scosso da scandali: entrambi hanno numerose relazioni extraconiugali, tra cui quella di Frida con Leon Trotskij, il più celebre dei rifiugiati politici che popolano in quel periodo il paese e che verrà ucciso nel 1940 da un agente sovietico nella sua casa di Città del Messico. Grazie al mecenatismo di José Vasconcelos - letterato, filosofo e politico - Diego Rivera diventa il più celebre e prolifico “muralista” del Messico che realizzerà in quarant’anni una miriade di cicli pittorici: i 235 pannelli che coprono tre piani del Ministero dell’Educazione, affreschi per l’Università, per il Palacio Nacional e tanti altri edifici pubblici sparsi in tutto il Messico. Sono pitture gigantesche che raffigurano le antiche civiltà messicane, la Conquista, l’Indipendenza, la Rivoluzione, l’era tecnologica e il popolo messicano. Rivera opera anche in America dove viene visto come un “marxista radicale”, mentre in patria è accusato di essere un “falso rivoluzionario”, ma probabilmente Rivera era soltanto un artista che aveva una visione romantica sia del socialismo che del capitalismo. Frida, sofferente nel fisico ma ardente nello spirito - Breton la definisce “un nastro intorno ad una bomba” - dipinge in quel periodo quasi esclusivamente drammatici autoritratti. Lei stessa spiega questo suo “narcisismo della sofferenza,” dicendo: “sono spesso sola e sono la persona che conosco meglio”. La sua unica mostra in vita, sempre all’ombra del gigante (anche fisicamente) Rivera, viene allestita nel 1953 e Frida vi partecipa arrivando in barella. Nel 1954 Frida muore a Città del Messico, mentre Rivera si spegnerà pochi anni dopo, nel 1957. Oltre all’immenso patrimonio delle loro opere, la coppia ha lasciato in eredità la casa-museo “Anahuacalli” che contiene una ricchissima collezione di oggetti - copie e pezzi autentici - delle civiltà preispaniche.